La prima brutta impressione sul trattamento del personale in trasferta la ebbi al primo anno di dottorato, quando, andando a seguire un corso, venni messa a dormire in una stanza doppia. A molti la sistemazione sembra una questione del tutto inessenziale, ma mi chiedo quanti di questi abbiano provato la sgradevole esperienza di doversi ritirare alla sera, dopo una giornata di intenso lavoro o studio, in una camera dove ancora bisogna interagire con estranei.
Faticando a prender sonno pensavo a quale “azienda di pezzenti” fosse la mia università e l’università italiana in genere. L’azienda privata più anonima presso cui ho fatto un colloquio, mi avrebbe garantito nelle trasferte, anche al primo impiego, un alloggio decoroso, il rimborso delle spese di viaggio e 50 euro al giorno per pasti e disturbo. Ma non la mia università.
Innanzitutto, nelle aziende private o nelle università degli altri paesi, le segreterie sono preposte all’organizzazione del viaggio: quando un ricercatore viene pagato 3.000 euro al mese, nessuno ha interesse a distoglierlo dal suo lavoro per una questione banale come organizzare il viaggio, banale, ma che porta via un’enormità di tempo. Quando un ricercatore viene pagato 1.300 euro al mese (e un dottorando 800 euro), perché distogliere il segretario dalle sue pratiche per un lavoro che l’universitario fa a meno?
Poi la pratica dei rimborsi. La parola rimborso è molto ingannevole, infatti la nostra università italiana rimborsa una somma sempre strettamente minore di quella spesa. La spesa deve essere rigorosamente documentata, quindi rimangono regolarmente fuori dai rimborsi la benzina, le spese bancarie o le commissioni per bonifici e acquisti online e, all’estero, dove nessuno è tenuto a rilasciare lo scontrino, praticamente tutti i pasti. Anche in Italia, ogni volta che ci si siede ad un tavolo, bisogna specificare al ristoratore che si vogliono tot ricevute separate, spiegandogli tutta la questione dall’inizio e non è sempre facile farsi capire (figuriamoci in un’altra lingua).
D’altronde la diaria passata dall’ufficio stipendi (per i dottorandi), corrisposta solo per le missioni all’estero, è all’incirca di 12 euro al giorno… Non commento l’utilità di questi 12 euro. Nonostante queste difficoltà, anzi, ingiustizie, tutti noi ci prodighiamo nella ricerca del volo low cost o dell’albergo appena decente, rinunciamo alle cene dei convegni e ripieghiamo sul bar, questo per far risparmiare il dipartimento, perché a noi, da questi sacrifici e dal tempo perso in ricerche del prezzo conveniente, non viene assolutamente niente.
L’impressione negativa di essere trattata non come un lavoratore in trasferta, ma come uno studente in gita di piacere (anche rimborsata!), è stata aggravata dalle disposizioni sulle missioni, all’osservanza delle quali siamo stati richiamati. L’amministrazione ci ha mandato, con il tono di un rimprovero, una mail, i cui punti più fastidiosi, per non dire offensivi, sono:
a) rientro tempestivo nella sede di lavoro, da effettuare nella stessa giornata di termine della prestazione fuori dalla ordinaria sede di servizio, qualora la distanza ed i mezzi di trasporto rendano ciò possibile;
b) le spese di pasto rimborsabili sono esclusivamente quelle sostenute nel luogo di missione.
Per quanto riguarda il punto a), alle condizioni che ho descritto, vi assicuro che nessuno di noi ambisce a rimanere fuori sede un giorno in più, nel povero albergo che si è potuto permettere, con i pasti a rischio di non rimborso, con la diaria di 10 euro sospesa perché limitata all’esatto periodo dell’evento a cui si è partecipato. Il “qualora la distanza ed i mezzi di trasporto rendano ciò possibile” vanifica tutto l’enunciato a), perché la giustificazione al pernottamento in più può essere sempre trovata. Oppure sarà istituito un organismo che giudichi sull’effettiva possibilità del rientro in giornata e sulla legittimità della permanenza fuori sede? Questione poi che varia da persona a persona, dato che la possibilità del “rientro in giornata” del pendolare non è la stessa di quello che ha la fortuna di abitare a Roma.
In merito al punto b), ma se uno mangia all’aeroporto è per suo gusto o si trova lì all’ora di pranzo perché deve andare in missione e, sempre per far risparmiare il dipartimento, ha preso un low cost, dove non passano neanche lo spuntino, invece di un volo di linea che si rispetti?
E ancora, non è poi così preciso dire che le spese di pasto rimborsabili sono quelle sostenute nel luogo della missione, bensì che sono l’intersezione tra quelle documentate e quelle sostenute nel luogo della missione; cosicché, se uno, per cautelarsi dall’assenza di scontrino nel luogo di arrivo, avesse voluto farsi rimborsare almeno un pasto, comprando all’aeroporto un panino per pranzo e quella salatissima bottiglietta d’acqua che, contrariamente al panino, non si può più neanche portare da casa, ora non potrà più farlo.
Insomma, per noi universitari, oltre ad essere mal retribuiti in genere, la trasferta è tutta in perdita, una perdita che forse può permettersi un professore ordinario, ma che per noi dottorandi è abbastanza pesante. In più dobbiamo avere a che fare con questi regolamenti troppo fiscali rispetto alle garanzie che ci vengono date dall’università stessa, negli ambiti più svariati. Noi dobbiamo presentare la documentazione anche di 6 euro spesi per cena, ma poi ci viene richiesto di non badare troppo alle formalità quando facciamo tutoraggi, a salari da fame, senza aver firmato il relativo contratto (pratica sempre più diffusa) o non ci viene fornito il materiale di cancelleria che ci spetterebbe per le normali attività quotidiane (o meglio, ci verrebbe fornito se facessimo noi stessi una lunga trafila burocratica per preventivi e autorizzazioni).
Si rende conto questa gente, così brava a far regolamenti dai mille cavilli burocratici, che ci rende, oltre che difficile, sgradevole lavorare? Io credo di sì, ma penso che non se ne preoccupi eccessivamente, non ritenendo la ricerca una professione degna di questo nome.
Soprattutto quando abbiamo così a portata di mano il termine di confronto delle aziende private e delle università negli altri paesi, tutta questa mancanza di considerazione per il ruolo da noi ricoperto, tutti questi ostacoli che ci vengono posti ad ogni minimo movimento sono un invito ad andarsene, a lasciare le strutture statali e anche il territorio nazionale, invito che, prima o poi, sempre più esasperati e disgustati, raccoglieremo.
Rachele Foschi (dottoranda)
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