L’ultima indagine Ocse-Pisa ha rivelato un quadro drammatico della situazione scolastica in Italia: i nostri studenti sono nella media solo in matematica, in tutto il resto arrancano sul fondo della classifica. Un problema annoso a cui nessun governo è mai riuscito a mettere mano e che adesso le dimissioni del ministro dell’Istruzione Lorenzo Fioramonti ha fatto letteralmente esplodere: l’onorevole grillino ha lasciato l’incarico dopo che la manovra di bilancio ha tagliato un miliardo ai fondi destinati alla scuola. L’educazione, troppo spesso trattata con superficialità, dovrebbe essere centrale nelle strategie di politica economica di un Paese perché come dimostrano diverse ricerche c’è una stretta correlazione tra gli investimenti in istruzione e crescita. Più una popolazione è “educata” più aumenta la produttività, l’innovazione viene incoraggiata e le nuove tecnologie sono adottate rapidamente.
In Italia, purtroppo, non accade nulla di tutto ciò. Anzi, la spesa pubblica in istruzione è costantemente tagliata. Già nel 2006 l’allora governatore di Bankitalia, l’ex presidente della Bce, Mario Draghi, osservava che solo “un aumento dell’istruzione media della popolazione e della sua qualità” avrebbe sostenuto la ripresa delle produttività e un aumento della partecipazione al lavoro. Eppure non è mai successo.
A gennaio 2019, il World Economic Forum ha pubblicato una ricerca che dimostrava come spendendo nell’istruzione superiore e costruendo università, il prodotto interno lordo della regione dell’investimento cresca in modo quasi straordinario. Lo studio, condotto dalla London School of Economics, ha preso in considerazione 78 paesi e quindicimila università e ha rilevato che: se si raddoppia il numero di atenei in una regione, il Pil arriva a crescere del 4,7 per cento nel giro di cinque anni e che l’effetto non rimane limitato ai confini di quell’area perché anche le zone circostanti spesso ne beneficiano.
Eppure come rileva l’Osservatorio conti pubblici di Carlo Cottarelli, nel 2017 la spesa per la pubblica istruzione è stata pari a 66,1 miliardi di euro, di cui 25,1 miliardi per l’istruzione primaria (prescolastica e elementare), 30,4 miliardi per quella secondaria (scuole medie, scuole superiori e istruzione post-secondaria non-terziaria), 5,5 miliardi per quella terziaria (università) e i restanti 5,1 miliardi per servizi sussidiari e altre categorie residuali.
Tradotto: l’Italia è stata l’unico paese dell’Ue in cui la spesa per interessi sul debito pubblico ha superato quella per l’istruzione. In termini percentuali, la spesa si è fermata al 3,8% del Pil a fronte di una media europea al 4,6%: peggio hanno fatto solo Bulgaria, Irlanda e Romania. Le cose, però peggiorano, se si considera la spesa pubblica per istruzione in percentuale di spesa pubblica totale: l’Italia è all’ultimo posto in Europa con solo il 7,9 per cento a fronte di una media europea del 10,2 per cento. Il risultato è che i laureati in Italia sono molti meno che nel resto d’Europa. E le cose sono destinate a peggiore con il passare degli anni. La Nadef pubblicata dal ministero dell’Economia ha messo nero su bianco il taglio della spesa pubblica per l’istruzione: nel 2035 scenderà al 3% del Pil.
Uno studio Ambrosetti del 2014 – su dati Ocse e Fmi – metteva in relazione il risultati del test Pisa con la crescita economica: peggiori erano le performance degli studenti, più la crescita si avvicinava a zero. Il risultato della ricerca è stato a più riprese contestato, ma che l’Italia abbia la crescita più debole dell’intera Unione europea è un dato inconfutabile. Così come sono realtà i tagli alla scuola e i pessimi risultati degli studenti italiani.
businessinsider
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