Ministro Manfredi, come troverà quel miliardo di euro necessario per Università e Ricerca che a Fioramonti invece non è stato assegnato?
«Lavorando, con il presidente del consiglio Conte e con il governo tutto. Il sistema universitario e della ricerca scientifica italiano ha bisogno di maggiori fondi, questa è una certezza. Credo che sia necessario quindi mettersi a lavorare per raggiungere questo obiettivo tutti insieme, individuando le priorità, quello che si può fare subito e quello che dovremmo fare più in là. Però offrendo delle certezze che consentano a Università ed Enti di ricerca di poter fare loro stessi una corretta programmazione».
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E’ giusto tornare a due ministeri separati?
«Credo proprio di sì. L’università, come la scuola, è una grande infrastruttura: ha i suoi problemi da risolvere e i suoi obiettivi da raggiungere».
Quali problemi proverà a risolvere innanzitutto?
«Serve una strategia pluriennale: l’alta formazione e la ricerca non possono cambiare passo ogni anno. È importante dare stabilità a questo settore in una prospettiva internazionale, come avviene in altri Paesi. Dobbiamo programmare il rilancio per dare garanzie ai nostri giovani, per evitare che i migliori vadano via dall’Italia: dobbiamo tenerceli».
Programmare in che modo?
«Dobbiamo mettere in campo un piano pluriennale per i ricercatori, per garantire nuovi ingressi ogni anno e, quindi, quel rinnovo generazionale di cui abbiamo molto bisogno. I ricercatori oggi hanno un’età media troppo alta. Programmando gli ingressi anno per anno si dà la sensazione a chi resta fuori che l’occasione può arrivare».
Parliamo di numeri, quanti ricercatori e in quanti anni?
«Almeno 10mila nuovi ricercatori nei prossimi 5 anni, oltre al naturale turn over. In questo modo chi va all’estero lo fa per scelta, non per obbligo. Chi resta in Italia, invece, sa che può tentare il prossimo anno. Oggi abbiamo solo piani di assunzione straordinari: in questo modo si ha purtroppo la sensazione che, perso un treno, non ce ne saranno altri. Senza la speranza non si può guardare al futuro».
Come si combatte il gap tra Nord e Sud?
«Credo sia un tema nazionale, da affrontare con serie ed efficaci politiche nazionali: l’università può essere un’importante leva per l’unione e lo sviluppo economico del Paese. Rafforzando gli atenei del Sud, andiamo a creare in quei territori strutture capaci di attrarre imprese e capitale umano. Una vera politica per il Mezzogiorno deve puntare ed investire su scuola e università. E’ importante che tutti gli studenti abbiano le stesse opportunità, indipendente dal luogo in cui vivono».
Come ci si riesce?
«Potenziando le università del Sud ma anche quelle più piccole, presenti nelle aree interne e marginali in cui gli atenei soffrono di più per lo spopolamento, perché gli studenti vanno altrove. Penso all’università di Camerino, messa a dura prova anche dal terremoto, o a quella della Basilicata».
Nelle aree dove i redditi sono più bassi, come al Sud, i ragazzi non si iscrivono all’università.
«E’ vero, la crisi morde e per questo le famiglie vanno aiutate con il diritto allo studio: dobbiamo far sì che le borse di studio siano garantite a tutti gli aventi diritto e va allargata la no tax area. Ma attraverso fondi statali: l’esenzione dalle tasse universitarie non può essere finanziata dagli atenei, come accade ora. Lo Stato paga solo per un terzo, il resto è sulle spalle delle università che con quei soldi, invece, dovrebbero pensare alla spesa corrente come per l’edilizia e i laboratori».
Perché l’Italia non attrae studenti stranieri?
«Si tratta di un aspetto importante su cui dobbiamo fare di più: internazionalizzare l’università è importante a livello formativo anche per gli studenti italiani perché li inserisce in una dimensione globale. Però per riuscire ad aumentare il numero di iscritti stranieri dobbiamo prima offrire un maggior numero di corsi in inglese: la lingua italiana non è alla portata di tutti e gli studenti stranieri cercano soprattutto corsi in inglese. Poi dobbiamo migliorare anche l’accoglienza».
Cosa pensa del test di medicina?
«Oggi abbiamo qualcosa come 80mila aspiranti medici ogni anno: siamo fuori scala e per questo non possiamo prescindere dal test a numero chiuso. Ma possiamo ampliare la disponibilità di posti».
In che modo?
«Già quest’anno c’è stato un incremento di posti e credo che, in base alle risorse e agli spazi che abbiamo, possiamo arrivare ad un bando da 15mila posti. Un obiettivo raggiungibile già dal prossimo anno, certo servirà un investimento. Lavorerò su questa strada e non solo».
Su cos’altro?
«Sul test e sui quesiti da proporre: devono corrispondere alle competenze per cui i candidati vengono selezionati. Ritengo inoltre che anche la preparazione al test debba essere pubblica, per evitare i costi dei corsi privati».
ilmessaggero
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