Pechino, proteste anti lockdown all’università. Studenti prigionieri nel campus

La protesta sarebbe partita da una studentessa con un foglio bianco in mano a mensa, in silenzio. Poi si sono uniti centinai di studenti

“È stata una ragazza, da sola, a far partire la protesta dentro al campus ieri mattina. Si è messa davanti all’ingresso della mensa con un foglio bianco in mano, completamente in silenzio. Piano piano si sono aggiunte sempre più persone. Tutti hanno iniziato ad imitarla e ad alzare i loro fogli bianchi. Sono stati li circa tre ore. Lo hanno fatto in solidarietà ai dieci morti nell’incendio di Urumqi e anche perché ci hanno richiuso dentro all’università, di nuovo”, racconta Sabrina (il nome è di fantasia) al quotidiano La Repubblica, studentessa italiana arrivata da qualche tempo alla Tsinghua di Pechino, uno degli atenei più prestigiosi di tutta la Cina, dove circa trecento ragazzi ieri hanno manifestato contro l’eterno lockdown. 

Proteste da Shanghai allo Xinjiang

Diverse città del Xinjiang sono isolate da oltre 100 giorni a causa del coronavirus: proprio le rigide misure contenitive pare abbiano ostacolato le operazioni dei vigili del fuoco provocando la morte per intossicazione di chi viveva ai piani più alti. Una tragedia che non ha lasciato insensibili i connazionali di Pechino, Shanghai, Nanchino e altri centri urbani. Nelle ultime ore manifestazioni di dissenso sono deflagrate in varie parti del paese. Il fatto è che in tutta la Cina – non solo nel Xinjiang – sta facendo più morti la strategia Zero Covid del coronavirus. Sono almeno tredici le persone ad aver perso la vita a causa della ferrea politica sanitaria di Pechino a base di lockdown, test di massa e limitazioni della mobilità: venerdì una ragazza si è suicidata non riuscendo a sopportare l’idea di venire internata in una delle strutture per la quarantena centralizzata. In confronto negli ultimi sei mesi sono stati solo tre i decessi per Covid: tutti over 80 con patologie pregresse. Nella notte di sabato centinaia di persone hanno marciato lungo Urumqi Road, il viale di Shanghai che prende il nome dal capoluogo del Xinjiang dove giovedì dieci persone sono morte in un incendio.

“Zero Covid”

Covid ha esacerbato ulteriormente distorsioni sociali preesistenti. Le diseguaglianze aumentano, gli emarginati restano tali anche più di prima. Si aggiungono i malumori di una classe media finora rimasta compiacente nei confronti di un governo che ha saputo assicurare per trent’anni benessere economico a fronte di compromessi per molti accettabili: non poter usare i social network americani o eleggere democraticamente i propri leader. Ora però l’appello alla ziyou (libertà) mostra istanze che trascendono le richieste estemporanee, frammentate, e geograficamente circoscritte degli ultimi anni: i manifestanti non invocano più solo una migliore qualità dell’aria o una classe dirigente meno corrotta. 

“Noi studenti internazionali siamo in ogni caso leggermente avvantaggiati rispetto ai cinesi: abbiamo stanze singole o doppie col bagno in camera, mentre loro stanno in stanze da quattro e senza bagno interno”, ha dichiarato la studentessa italiana. “I cancelli sono chiusi, quindi da oggi anche i professori non potranno entrare e faremo le lezioni online. Non possiamo né entrare né uscire dal campus. All’interno siamo ancora però abbastanza liberi: a meno che non ci confinino in camera”. Sebrina, arrivata in Cinea per una doppia laurea dal Politecnico di Milano, racconta la frustazione dei colleghi cinesi che non riescono ad uscire dall’incubo del covid: “Sono stufi, ma allo stesso tempo sono spaventati. Dopo le proteste tanti ragazzi hanno fatto richiesta speciale di poter tornare a casa, a Pechino e nelle altre città d’origine. Lasciano il campus perché non si sentono sicuri”. 

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