I consigli di Lazzaro Rino Caputo, preside della facoltà di Lettere dell’Università Tor Vergata, per la prima prova di italiano della Maturità 2009
È abbastanza benevolo il giudizio di Lazzaro Rino Caputo, preside della facoltà di Lettere dell’Università Tor Vergata di Roma, sulle competenze linguistiche dei giovani d’oggi. Non lo preoccupano le “storture” che la “generazione facebook” impone al vocabolario e alla grammatica italiane. Piuttosto, insiste sull’importanza di esercitare un controllo sul parlato: “In situazioni diverse, occorre adottare registri diversi, una capacità sempre meno sviluppata negli studenti”.
E per quanto riguarda lo scritto, preside, quali sono le regole basilari, dal punto di vista linguistico, per ottenere un buon risultato?
Ai miei corsi di lingua, come al master di giornalismo, esordisco sempre con questa raccomandazione: è importante scrivere i pensierini.
Come si faceva alla scuola elementare?
Esattamente, è un sistema che insegna a procedere in maniera chiara, per lo meno a livello di impostazione generale. Successivamente, le frasi e il testo si possono sempre rendere più complesse, ma la scrittura, anzitutto, deve essere bella e breve. È fondamentale, inoltre, mantenere un certo rigore, ricordando che il testo scritto è cosa differente dalla comunicazione orale e richiede strumenti specifici, tra cui la capacità di argomentare.
È una capacità che, a suo giudizio, i ragazzi hanno ancora, abituati come sono allo “stile sms”?
La tendenza alla stenografia, effettivamente, è sempre più diffusa…
Anche qui all’università vedo che, nei primi esoneri, capita che gli studenti scrivano + o – a simbolo, anziché a lettere, per non parlare del “k” al posto del “ch”.
Un obbrobrio…
Forse sì, ma non è detto. Non bisogna demonizzare l’evoluzione della lingua, magari tra qualche decennio tutti scriveremo “ki” e “ke” in sostituzione di “chi” e “che”, non è questo ciò che conta.
E cos’è professore?
Un buon controllo linguistico. Basti pensare a Benedetto Croce. La sua prosa è tra le migliori della nostra letteratura, sebbene quando parlasse lasciava emergere la sua forte inflessione dialettale: era nato a Pescasseroli. Lo stesso valeva, molti secoli prima, per Dante che nel De Vulgari Eloquentia definisce il nascente italiano “lingua succhiata alla nutrice”, non degna di essere usata per scrivere, ruolo che spetta al latino. I giovani d’oggi, invece, tendono a non distinguere più tra la dimensione dialettale, o comunque, del colloquio orale, e quella dello scritto.
Colpa della scuola?
No, e comunque non serve giocare allo “scarica barile”, come spesso accade all’università, gradino finale della scala formativa. Certo, dagli ultimi studi emerge che la competenza della scrittura, appresa bene alle elementari, tende a perdersi alla scuola media e in alcuni casi ad essere recuperata alla fine delle superiori, ma non sempre è così.
Non la preoccupa neanche l’inquinamento della lingua da parte della terminologia tecnologica e straniera?
Direi di no, per citare nuovamente Dante, vorrei ricordare che il 90% del nostro vocabolario, è il medesimo che adoperava il grande poeta. L’evoluzione dunque non è così rapida. E poi esiste un livello psico-linguistico che salvaguarda in maniera spontanea l’italiano.
In che consiste?
Fondamentalmente nel buon senso. Abbiamo adattato e adottato, per esempio, la parola “cliccare”, ma non abbiamo trasformato “to scan” in “scannare”, mandando in tilt il vocabolario… piuttosto diciamo “scannerizzare”. Lo stesso vale per “to paste”: abbiamo preferito tradurlo con “cancellare”, anziché con un improbabile “pastare”, parola che avrebbe rimandato in maniera poco chiara alla terminologia culinaria e al piatto più amato degli italiani! Non voglio essere giudicato un lassista, ma tralasciamo il superfluo e insegniamo invece ai giovani a esercitare una corretta padronanza della lingua, attraverso un rigoroso controllo del suo utilizzo in contesti diversi.
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