Francesca e gli altri. Sono migliaia in Italia i precari del settore della ricerca. Per alcuni soltanto numeri di cui non si sa nulla, né cosa facciano né dei sacrifici cui vanno incontro. Persone che rappresentano la spina dorsale di un settore che il ministro Gaetano Manfredi ha definito «in grado di creare sviluppo ed economia all’intero Paese» e che punta ad assumerne 1.600 nel decreto Mille Proroghe attraverso «un reclutamento meritocratico e programmatico». La ricerca nei nostri centri, istituti e università è infatti in mano ai precari. Proprio come Francesca Colavita, appunto, nel team che ha isolato il Coronavirus all’Istituto Spallanzani.
DICIASSETTE ANNI IN BILICO
Diciassette anni dalla laurea e la stabilizzazione sembra ancora un miraggio. È quanto vissuto da Alessio Botta, 43 anni ricercatore precario di Sistemi di elaborazione delle informazioni al Dipartimento di Ingegneria elettrica e delle Tecnologie dell’Informazione dell’Università Federico II, che paga il blocco dei concorsi. «Dopo la laurea ho seguito il classico iter ma ci sono stati anche due anni senza un centesimo» racconta. Ora «sono ricercatore a tempo determinato di tipo B, non ancora stabile ma al termine del triennio potrei aspirare a una cattedra da professore associato». Un traguardo ottenuto dopo aver visto tanti sui colleghi mollare («appena il 10 per cento dei miei compagni di dottorato ha continuato la carriera universitaria») e incassato molte delusioni sentimentali («sono finite molte storie perché non potevo pianificare un futuro. Da alcuni anni sono sposato e ho due bimbi piccoli perché ho trovato una donna che ha capito cosa significa questo lavoro». Botta avrebbe potuto lasciare Napoli ma «mi ha tenuto qui la passione, ma è anche una fregatura, perché poi torni a casa e devi capire come pagare bollette, affitto, spesa».
DIATOMEE E CURA PER IL CANCRO
Una storia simile a quella di Valeria Di Dato, 44 anni, che proprio ieri ha iniziato il primo giorno da ricercatore a tempo indeterminato alla Stazione Zoologica Anton Dohrn. Poco più di dieci anni di attesa per la biotecnologa marina che studia le diatomee e la sostanza che produce per difendersi dai predatori e che sta testando come antitumorale. «Il mio più grande errore è stato tornare in Italia dopo tre anni trascorsi in Francia» spiega. «Perché qui è tutto rallentato dalla burocrazia. Alla Stazione Dorhn ho trovato un ambiente meritocratico e da oggi sono finalmente stabilizzata». Le difficoltà di un precario? «Tante. Dal vedersi rifiutare un contratto d’affitto o la carta di credito. Ho tenuto duro grazie alla mia passione, alla curiosità per la conoscenza, alla capacità di perseverare. Molti lasciano prima, ne ho visti anche di bravi lasciare la ricerca».
SOGNARE IL RIENTRO A NAPOLI
Per Claudia Corbo, 37 anni e laurea in Chimica, il sogno è rientrare a Napoli. Ora è ricercatrice di tipo B a tempo determinato a Milano Bicocca «ma tornare alla Federico II per me sarebbe importante. Ora sono a Milano e constato la difformità di valutazione economica: qui gli assegni sono più consistenti perché arrivano più fondi. Non me ne capacito, è un’assurdità anche perché in molti siamo meridionali a portare avanti la ricerca». Durante i sei anni trascorsi a Houston Methodist Hospital e Harvard Medical School della Harvard University, ha rinunciato alla vita privata: «Ho perso fidanzati che non hanno retto al rapporto a distanza, da sola con la passione per la ricerca, non compresa da nessuno. Sono la prova dell’assioma che i ricercatori possono stare solo con altri ricercatori, per fortuna». Le difficoltà di stabilizzarsi pesano ancora molto e Corbo, che utilizza nanoparticelle per la diagnosi del cancro, ha spesso pensato al piano B: «Aprire un bar. Spero che non accada perché credo nel mio lavoro».
CONCORSO APPENA VINTO
Più fortunata è Maria Romano, 33 anni biotecnologa. Dopo il dottorato e assegni di ricerca al Cnr è volata ad Oxford dove ha iniziato una carriera universitaria brillante. «Consiglio a tutti alcuni anni all’estero, si rientra più forti e determinati». La fortuna ha voluto che un concorso fatto «senza convinzione» si rivelasse il suo futuro. Da pochi mesi è ricercatore a tempo indeterminato dell’Istituto di Biostrutture e Bioimmagini del Cnr di Napoli, uno degli istituti di ricerca più prestigiosi che abbiamo in Italia diretto da Marcello Mancini. Qui Romano lavora nell’ambito delle patologie infettive antibiotico resistenti: «Ci sono arrivata grazie alla mia tenacia e studio. Fin dalla laurea triennale volevo ribellarmi al sistema italiano che non dà spazio ai giovani ricercatori, così ho cercato di individuare il percorso che mi avrebbe permesso di arrivare al mio obiettivo: in particolare lavorando all’Istituto di Ricerche Genetiche Biogem ad Ariano Irpino, consorzio che promuove la ricerca tipo la Normale di Pisa».
ilmattino
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