Faraone: "I ricercatori lavoreranno nelle scuole e negli uffici pubblici"

L’idea di base è chiara, precisa: “Bisogna collegare il mondo dell’Università e della Ricerca al lavoro, al sistema produttivo del Paese”. Parola di Davide Faraone, renziano, sottosegretario al MIUR, che in un’intervista con Flavia Amabile su La Stampa presenta le novità che riguardano il popolo dei ricercatori italiani. Tutto è partito dall’emendamento Meloni al decreto Madia, che ha acceso la discussione sul tema dei canali preferenziali per concorrere nella pubblica amministrazione. E non mancano le novità: “Siamo stati per lungo tempo un paese bloccato e organizzato per compartimenti stagni, senza osmosi” – aggiunge Faraone. “Occorre prevedere crediti in più per chi ha un dottorato”. Ecco l’intervista nella sua versione integrale
 
Sottosegretario Faraone, la riforma della pa ha dato via libera alla valorizzazione del dottorato di ricerca nei concorsi pubblici. In che modo?
Nel decreto Madia adesso in discussione gli emendamenti del deputato Meloni che stabilivano dei canali preferenziali per concorrere nella pubblica amministrazione erano due: uno distingueva l’ateneo di provenienza, l’altro valorizza il titolo del dottorato. Entrambi hanno immesso nel dibattito temi molto importanti che ci costringono a una riflessione più ampia sul valore e sulla spendibilità dei titoli di studio. Ero e sono contrario a stabilire classifiche tra Atenei, per questo sono stato tra coloro che hanno chiesto la soppressione del primo emendamento. Ma ero e sono favorevole a introdurre pluralità di missioni nel sistema universitario all’interno di un ragionamento più ampio e organico, oltre che franco e condiviso, che investa l’Università e il mondo della Ricerca. Entrambi devono essere legati al sistema produttivo del Paese. Per questo trovo sacrosanto l’emendamento che introduce la valorizzazione del titolo di dottore di ricerca nei concorsi della PA. Che significa? Significa che la classe dirigente della Pubblica Amministrazione deve essere di altissima qualità. Prevedere che il titolo di dottore di ricerca favorisca l’accesso agli alti ranghi dell’amministrazione è una modalità concreta per qualificarla. È una forma che favorisce il merito, senza discriminazioni.
Qualcosa di simile c’è anche nella riforma della scuola. Che cosa esattamente?
Lo stesso ragionamento vale anche nei concorsi per insegnanti: è assurdo non prevedere dei crediti in più per chi ha un dottorato in letteratura, in pedagogia, in sociologia o in qualunque altra disciplina che attesti conoscenza, approfondimento, eccellenza e metodo. Ridare dignità alla professione dell’insegnante vuol dire anche riconoscere il percorso che i docenti hanno fatto durante la propria formazione e che possono continuare a fare dentro la scuola. Io considero l’aggiornamento dei docenti come una forma di ricerca-azione, altamente qualificata, che può condursi in sinergia con i dipartimenti di ricerca. È una cosa che accade normalmente in sistemi d’istruzione eccellenti o emergenti: Finlandia, Australia, Brasile.
Come spiega il fatto che in Italia finora non fosse prevista alcuna valorizzazione dei dottorati?
Siamo stati per lungo tempo un paese bloccato e organizzato per compartimenti stagni, senza osmosi. Un dottorato in medicina o in ingegneria o in pedagogia doveva essere speso soltanto in un ateneo. Con dei “costi umani” considerevoli. Ci rendiamo conto dell’assurdità? Adesso flessibilità, osmosi, eccellenza, qualità, sono caratteristiche richieste per competere a livello internazionale. La ricerca deve avere delle ricadute sociali e produttive, per cui ben venga la sinergia tra questa e la società, tra questa e lo sviluppo. Significa rendere merito a chi ha fatto dell’approfondimento e della ricerca una scelta di vita attiva non di eremitaggio, scelta che può essere spesa a beneficio della collettività e non solo nei dipartimenti universitari: nella pubblica dirigenza, nelle scuole, nelle imprese. Significa investire nel nostro Paese. Per cui è un bene che nella riforma della PA si preveda un riconoscimento specifico di tale titolo come canale preferenziale per accedere a cariche dirigenziali e nei concorsi della pubblica amministrazione. Agiamo nell’interesse dell’Italia che vorremmo: l’Italia delle eccellenze, che premia il merito e che, nello stesso tempo, qualifica il Paese. Lo stiamo facendo con la riforma Madia, lo stiamo facendo con La Buona Scuola, lo stiamo facendo anche con il Piano Nazionale di Ricerca che è stato recentemente presentato ma non adeguatamente considerato dai media: sono previste una serie di misure per favorire l’immissione nel mondo delle imprese dei dottori di ricerca, con l’istituzione dei cosiddetti dottorati industriali. Fisici, biologi, medici, ingegneri: le nostre imprese hanno la migliore artigianalità ma sono carenti in innovazione e di specializzazione qualificata con formazione superiore. Storicamente le piccole e medie imprese non investono in laureati, meno che mai in dottori di ricerca, non solo per effetto della crisi, visto che è personale che va pagato molto di più, ma anche per scarsa apertura. Eppure devono farlo, oggi non ci si può permettere di non competere sull’innovazione.Prevedere degli sgravi per l’assunzione di dottori di ricerca, ecco, questo potrebbe essere il prossimo passo.
Quale può essere il contributo dei ricercatori alla scuola, agli uffici pubblici, alle imprese?
Secondo noi, ma anche secondo i dottori di ricerca che abbiamo incontrato e con i quali abbiamo discusso in questi mesi, il loro titolo non può essere solo il primo gradino della carriera universitaria, ma il primo gradino della qualificazione del lavoro della classe dirigente italiana, inteso nel senso più ampio. Pubblica amministrazione, scuola, impresa. Parliamo di concorsi per funzionari, per personale specializzato. Non per impiegati di concetto generici, come si diceva una volta. Dobbiamo avere tutto l’interesse a far sì che tali cambiamenti vadano avanti perché significano tanto: dare valore al merito, allo studio, alla ricerca, qualificare la nostra classe dirigente e dunque agire sulla qualità del sistema Italia. Inserire nei gangli dirigenziali know how e conoscenza è essenziale perché il mercato mondiale del lavoro cresce se cresce il sistema della conoscenza. Lo dicono le analisi. Le imprese italiane in passato sono state chiuse da questo punto di vista. E anche lo Stato, ammettiamolo. Sono entrambi ambiti che devono migliorare la loro produttività e giovani ultra preparati possono favorire tutto ciò. È esattamente quello che intendiamo per valorizzazione del capitale umano. Accogliamo così, condividendole da tempo, sia le richieste dei laureati e dei dottorandi, sia le dichiarazioni in tal senso dei rettori, ultimo in ordine di tempo, per esempio, il presidente della Crui, Stefano Paleari.
Non c’è il rischio di mortificare ulteriormente i sacrifici e le competenze di persone che hanno studiato per fare ricerca e non per andare a lavorare in un ufficio pubblico?
È la disoccupazione quella che mortifica, non il lavoro. Col 50% di disoccupati in alcune aree del paese ancora ci preoccupiamo di “mortificare”? Ma qualcuno parla con questi giovani? Non pensiamo in astratto e arroccati su Marte.La battaglia per i dottori di ricerca è una delle cose su cui mi sono impegnato da subito con loro, non con i loro padri, una volta diventato Sottosegretario, con l’ADI, l’Associazione dottorandi e dottori di ricerca italiani. È esattamente quello che ci chiedono: dare al dottorato altri sbocchi certi e qualificati oltre quello universitario, come del resto accade in quasi tutta Europa. Ogni anno circa 10.000 giovani italiani ottengono questo titolo ma di questi meno del 10% riesce a diventare ricercatore, peraltro solo a tempo determinato. Rimangono fuori dal sistema universitario, e più in generale dal mondo del lavoro, menti giovani, ultra-specializzate, dinamiche e innovative. Il lavoro non è mai una mortificazione. Consideriamo poi che stiamo parlando di lavori di eccellenza: nella PA o nelle imprese. Sono funzioni dirigenziali. Anche un insegnante è un funzionario dello Stato. I giovani sono molto meno ideologizzati di noi, hanno capito che bisogna unire sempre il sapere al saper fare. Chiedono un sistema formativo e della ricerca che unisca mondi, non che li separi dai mondi e la mancata valorizzazione del titolo di dottorato di ricerca è uno degli effetti più dolorosi del fossato che si è creato tra mondo della ricerca universitaria e mondo del lavoro. L’Italia è sistema bloccato in un mondo in veloce trasformazione, per questo tra sistema formativo, ricerca e mondo delle professioni si deve creare un rapporto virtuoso e strettissimo. La situazione attuale di separazione non fa bene a chi si forma e non fa bene al paese. Dobbiamo inoltre interrogarci su un tema più ampio: quale sistema universitario oggi serva all’Italia e rinnovare le missioni di tale sistema. Le tre missioni storiche dell’Università, formare, fare ricerca e fare trasferimento tecnologico non possono più considerarsi staccate l’uno dall’altra. Rendere attrattiva l’università italiana è una delle richieste che ci arriva anche dall’Europa. E lo si fa con azioni come quelle descritte sopra, che mettono al centro il futuro dei nostri laureati nel paese, non le carriere degli ordinari. Trattenere i nostri migliori laureati e specializzati in Italia dando loro sbocchi è una delle richieste che ci arriva dal Paese. Credo che passi come questi possano invertire la rotta. Decisioni però prese all’interno di un unico principio: unire sistemi finora staccati e sbloccarli.

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