Amedeo Ricucci mi raccontò: “Anch’io ho paura, ma vado avanti”

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“In Siria ci vado perché devo qualcosa a quel popolo”. Ho conosciuto Amedeo Ricucci per un lavoro di tesi, ma il mio incontro con lui è andato ben oltre una semplice intervista. Dai 10 minuti richiesti siamo stati ore a parlare del giornalismo, del dramma siriano e del ruolo dei giornalisti in situazioni simili.

Non è un tipo che si risparmia, Amedeo, e le sue frasi mi hanno colpito nel profondo. Quando gli ho chiesto se si sentiva legato alla guerra mi ha risposto con franchezza: “Sai, la guerra, la battaglia, ti mettono adrenalina: tu sei lì, in prima persona, a raccontare e vivere quei momenti. Ma penso che la guerra sia un po’ come la droga, non bisogna lasciarsi assuefare”.

Il giornalismo, per Amedeo, è una missione seria, fondata su una reputazione solida costruita col tempo e col carisma: “In Siria ci torno perché devo qualcosa a quel popolo. Sai, è facile per noi andare lì, raccontare e vivere il loro dramma per 10-15 giorni, e poi staccare tutto, andarsi a fare una birra al confine turco per ripartire. Loro, i siriani, vivono tutti i giorni con le bombe sotto gli occhi: mi sono sentito in dovere di farlo”.

C’è, però, una frase che mi è rimasta impressa. “Noi giornalisti di guerra non siamo coraggiosi, no. Abbiamo paura. A volte è proprio la paura che ti fa andare avanti. In quei momenti conviviamo con le nostre paure, e dobbiamo solo imparare a gestirle nel miglior modo possibile”.

Raffaele Nappi

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