La strada per diventare avvocato è irta di ostacoli. Si inizia con il corso di laurea in Giurisprudenza, per poi passare all’attività di praticante e, se tutto va bene, terminati i due anni, è già tempo di sostenere l’esame di stato. “Ogni anno si presentano tra i 3mila e i 4mila aspiranti avvocati. Di questi, solo il 10-15% riesce a superare l’esame”. A parlare è Filippo Lubrano, direttore della Scuola di specializzazione legale della Luiss. L’occasione, per riflettere sullo status del praticante, è stata offerta, mercoledì 17 dicembre, dal convegno “L’Italia del praticantato”, organizzato dagli studenti di “All around Luiss” nella sede della facoltà di Giurisprudenza di Via Parenzo.
Tra gli invitati anche il ministro della Gioventù Giorgia Meloni, che ha annunciato la necessità di una “riforma della formazione professionale, non disgiunta dalla riforma della scuola e dell’università”, che comprenda tirocini durante il periodo di formazione, affinché “i giovani non siano costretti a ritardare l’accesso alla professione”. Per raggiungere questo è però indispensabile che si proceda ad una “armonizzazione della normativa europea”. I laureati italiani, infatti, potrebbero pagare lo scotto di un iter professionale troppo tortuoso rispetto a quello esistente negli altri Paesi Ue. Il risultato sarebbe quello di dover competere con giovani avvocati, siano essi francesi, spagnoli o tedeschi, che vantano un’età più bassa. Si tenga conto che in Italia l’età media in cui si diventa avvocati è di 29-30 anni. Decisamente troppo.
Ma quali sono i problemi dei praticanti forensi? E’ il preside della facoltà di Giurisprudenza della Luiss Roberto Pessi ad elencarli in maniera esaustiva: la possibilità di far valere i mesi di tirocinio o stage come parte del praticantato (si pensi ad esempio alle convenzioni con tribunali e corti d’appello che, se di sei mesi, potrebbero ridurre ad un anno e mezzo il periodo di tirocinio), l’eventualità che il praticante venga retribuito nel corso dei due anni, anche al fine di potersi mantenere agli studi della scuola di specializzazione. L’ottica è che la pratica professionale in uno studio legale non possa prescindere dalla frequentazione assidua di una scuola di specializzazione per le professioni legali. La motivazione è una sola: tirare su dei veri avvocati, senza improvvisazione o povertà di contenuti.
La vocazione prima di tutto. Capita spesso di vedere praticanti che lavorano part-time, o che vengono mandati a fare fotocopie o a notificare atti. In altri casi ancora, quando c’è la voglia di emergere, di trovare la propria strada, quegli stessi praticanti si sbrogliano tra centomila cose da fare, in primis la preparazione a concorsi di ogni genere. La retribuzione, in questo senso, aiuterebbe a ridare dignità al lavoro, oltre che a permettere a ciascun tirocinante di perseguire con maggiore determinazione la strada intrapresa. Un problema però è in agguato. E’ risaputo, infatti, che di questi tempi la convenienza ad insegnare “i segreti del mestiere” è data dal fatto che i tirocinanti non vengono pagati. Se i mille euro al mese venissero versati, c’è da giurarci che il numero dei praticanti si ridurrebbe notevolmente. Nessuno avrebbe più convenienza a tenerseli. La competizione si abbasserebbe, e meno avvocati ci sarebbero in giro. Altra misura che va in questa direzione è quella dell’albo chiuso, un pò come si verifica per il caso dei notai, distribuiti in base ad un certo tetto di abitanti.
Rivolgendosi ad una platea di futuri avvocati, il ministro Meloni si congeda con la promessa di riferire al ministro della Giustizia Angelino Alfano le risultanze dell’incontro: come l’impegno a modificare l’attuale sistema d’accesso all’albo, in particolare l’aggiunta di una seconda data per l’iscrizione al praticantato, altra questione spinosa di cui si è dibattuto nel corso della giornata, e l’agevolazione per l’esame di stato per chi frequenta la scuola forense, perché è giusto fare dei distinguo. I praticantati, insomma, non sono tutti uguali.
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