L’emergenza coronavirus ha fatto diventare una necessità lo smart working, ma questa situazione ne può far emergere anche l’utilità
«Da un lato vogliamo contribuire con senso civico alle misure precauzionali richieste dal Governo e dalla Regione Lombardia, dall’altro è essenziale per noi continuare ad erogare il servizio e supportare i nostri clienti». Silvia Bolzoni, president & CEO di Zeta Service, spiega così la scelta della sua azienda, specializzata in amministrazione del personale, che, come molte altre (anche i dipendenti del Comune di Milano, in questo periodo di emergenza coronavirus ha scelto lo smart working.
Nel caso di Zeta Service è la prima volta che tutta l’azienda lavora contemporaneamente da remoto, non andando per niente in ufficio.
Dall’emergenza può però nascere una buona pratica di lavoro. «Oggi lo stiamo vivendo come un’esigenza contingente, ma lo smart working strutturale ha un feedback positivo sotto diversi aspetti», spiega Emanuele Barberis, responsabile del dipartimento di Diritto del Lavoro dello studio legale Chiomenti. Ed è lui a guidarci nella conoscenza dello smart working: «C’è una legge dello Stato da diversi anni, regolata anche da una circolare dell’Inps del 2017 per la sicurezza dei luoghi di lavoro lavorando anche da remoto. Non ci sono limitazioni di genere, status o categoria».
Perché in questi giorni è più facile farlo?
«Il governo ha emanato un provvedimento che consente ai datori di lavoro nelle zone rosse e gialle e ai dipendenti che abitano in queste zone di poter continuare a lavorare da casa senza dover fare un contratto di smart working, che prima era obbligatorio e da depositare affinché l’Inail fosse informato. Adesso il governo dice che si può fare senza l’accordo individuale. È sufficiente che il datore di lavoro depositi sul portale del ministero un’autocertificazione con i nomi dei dipendenti in smart working e al lavoratore arrivare un modulo sulla sicurezza con le linee guida su come si lavora in smart working».
Le tutele e i diritti sono gli stessi?
«Sì, le linee guida indicano i luoghi adatti a lavorare: con una buona illuminazione, non esposti a pericoli (il picco della montagna non va bene, il tavolo del salotto sì). L’azienda può poi dare indicazioni specifiche: per esempio va bene il tavolo della cucina, ma lontano da fonti di calore».
I tempi di lavoro?
«Noi lo precisiamo sempre: non sei in vacanza, non sei in permesso. L’orario di lavoro rimane uguale, se hai bisogno di uscire devi chiedere un permesso come fossi in ufficio».
Quali sono i limiti della sicurezza?
«L’azienda deve darti un equipaggiamento per lavorare da casa con pc e linee di connessione protette. Hai la possibilità di entrare nelle intranet. Il limite è dato dal tipo di attività che fai: un avvocato, un consulente, un creativo lo possono fare, ma poi servono per tutti appuntamenti e macchinari che sono in sede».
Al datore di lavoro conviene lo smart working?
«Tutte le statistiche dimostrano che le aziende che hanno implementato lo smart working hanno un aumento di produttività importante da parte dei dipendenti, una possibilità di gestione più flessibile degli spazi, una diminuzione dei periodi di assenteismo, uno strumento per gestire casi particolari come maternità, disabilità e questioni personali senza dare discontinuità all’attività lavorativa».
Da fare sempre o con giorni limitati?
«Non è da fare tutti i giorni perché l’inserimento in azienda, il confronto con gli altri, l’incontro con un cliente sono momenti necessari. È fondamentale vivere l’azienda. In maniera totale è giusto farlo per gestire casi specifici».
Giusto gestire l’iter per lo smart working se questo periodo di lavoro a distanza obbligato darà risultati?
«Questo può essere un buon test per vedere, fatte salve alcune regole inderogabili, se si può pensare a un modello più semplice».
Nella gallery in alto i consigli per organizzare il lavoro a casa di Sabrina Toscani, professional organizer, fondatrice di Organizzare Italia, che aiuta le persone e le aziende ad allenare le competenze organizzative.