Lettera dei ricercatori in esilio

Sono dottorandi, ricercatori e giovani professori che vivono e lavorano all’estero che esprimono sostegno alle mobilitazioni accademiche.

Dottorandi e giovani professori, ch lavorano all’esterno, si  sono riuniti sul web per mostrare le loro ragioni sull’iniziativa di protesta universitaria in Italia.
Siamo dottorandi, ricercatori e giovani professori che vivono e lavorano all’estero. Siamo quelli che, volenti o nolenti, hanno provato a mettersi in salvo dalla minaccia della precarietà perpetua, a cercarsi un futuro migliore, più sicuro ma anche più interessante. Siamo quelli che hanno scommesso su un altro Paese europeo. Siamo, insomma, i portatori (quasi) sani di quei cervelli in fuga nominati, spesso a sproposito, ogni volta che si parla di ricerca in questo Paese. Dei cavalieri di ventura, per dirla alla Brunetta. O magari dei pusillanimi che vedendo la barca affondare se la sono svignata.
La precarietà nel mondo della ricerca del Bel Paese è ormai patologica, come dimostrano in maniera ironicamente surreale le misure di contenimento, più o meno esplicite, adottate da Paesi come Francia e Spagna per limitare le invasioni di italiani. Stiamo diventando i Rom della ricerca scientifica in Europa.
Per questi motivi la nostra non è una fuga: è un esilio!
Un esilio scelto da chi non aveva più nessuna voglia di legare il proprio futuro non solo lavorativo alle scelte di una classe politica (tutta) vecchia, inetta e arrogante. Perché dipendere da un corpo baronale incancrenito che gestisce l’università con il solo scopo di conservare le proprie posizioni (come ci ricorda il rettore di Bologna) e che si dispera pubblicamente per la morte della ricerca quando ogni giorno la uccide in privato con pratiche di vassallaggio o nepotismo, era diventato insopportabile.
Pur essendo all’estero non abbiamo però perso il vizio di interessarci a ciò che accade in Italia e in questi giorni ci stiamo entusiasmando per la compatta escalation delle proteste dei ricercatori. Finalmente qualcosa che ci sollevi il morale, normalmente un po’ depresso dai tanti sorrisi compassionevoli che vediamo sulle facce dei colleghi stranieri quando si nomini l’Italia (e il suo governo). Finalmente un moto di dignità di fronte all’ennesimo arrogante attacco. Non certo il primo, ma probabilmente il più deciso degli ultimi anni. E, a dirla tutta, non solo di dignità si tratta, ma del futuro di migliaia di persone, per non dire di un Paese intero.
Non siamo qui semplicemente a fare il tifo. La solidarietà che vogliamo manifestare ai ricercatori in mobilitazione non è un atto di cortesia, ma esprime la volontà di chi vuole partecipare ad una lotta che sente propria.
Anche noi, indisponibili a restare a guardare in silenzio, rivendichiamo la libertà di scegliere se rientrare o meno, per contribuire ad innovare la società in cui ci siamo formati. E che in questi tempi mostra proprio di aver bisogno di reinventarsi culturalmente. L’arroganza del governo attuale rende la situazione particolarmente tragica in Italia, anche se, ovviamente non si tratta solo di un problema italiano: le politiche imposte dalla Commissione Europea e gli interessi di organismi economici e finanziari ci stanno spingendo verso una crisi globale dell’Università come istituzione.
Dal Pakistan a Berkeley le università sono scosse da ondate di protesta. Se il tempo liberato dall’indisponibilità dei ricercatori potrà servire a studenti e precari per rilanciare la lotta, quella italiana potrebbe essere ancora una volta la scintilla che riaccende le proteste in Europa. Visto mai che questa volta si riesca a strappare qualcosa.
Gli studiosi in esilio hanno pubblicato una petizione online in solidarietà dei ricercatori italiani.

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