Lauree a misura di lavoro 4.0

Ritorna il dibattito sull’equiparazione delle lauree professionalizzanti, corsi sperimentali (triennali) negli atenei italiani che insieme agli Its dovrebbero preparare le nuove figure per un mercato del laovoro sempre più specializzato e bisognoso di conosceze applicative. Questa volta ad alimentare il fuoco della discussione è Andrea Gavosto, direttore di Fondazione Agnelli, che dalle pagine del Sole 24 Ore ripercorre le principali tappe del manifesto industria 4.0 dell’ex ministro dello sviluppo economico Carlo Calenda e del segretario di Fim Cisl, Marco Bentivogli, e sopratttutto i motivi del pantano venutosi a creare in quell’iter formativo che doveva copiare la Germania. Nel paese della seconda cancelleria Merkel, infatti, sono quasi un milione i giovani che usciti dalla maturità di iscrivono ai corsi di formazione professionalizzante; in Italia, invece, superano di poco i 10mila gli studenti che scelgono questi studi biennali post maturità. Di seguito riportiamo l’intervento per intero del direttore di Fondazione Agnelli.
“Calenda e Bentivogli, nel loro manifesto per l’industriza 4.0, hanno fissato come obiettivo almeno 100mila studenti iscritti a corsi di studio professionalizzanti entro il 2020: solo così possiamo sperare di raggiungere l’obiettivo europeo del 40% di laureati fra i giovnai, mentre oggi siamo al 26% – scirve
Finora, la risposta italiana a questa domanda di competenze sono gli Istituti tecnici superiori: di norma, un biennio successivo alla maturità tecnica o professionale. Gli Its, nati nel 2008, hanno sulla carta tutti gli ingredienti giusti: i settori di specializzazione; gran parte dell’apprendimento avviene nei luoghi di lavoro attivando strumenti all’avanguardia: l’80% dei diplomati trova subito occupazione, anche perché già ben selezionati in partenza. Rimangono due problemi: i numeri degli Its sono estremamente piccoli (10.500 studenti in 93 istituti in tutta Italia) e, di conseguenza, i costi pro capite elevati (intorno ai 10mila euro per studente); il diploma finale non è equiparato ad una laurea triennale. 
Problemi seri se si vuole davvero decuplicare il numero degli iscritti. Infatti gli attuali Its – adeguatamente finanziati – hanno pochi incentivi ad aumentare il reclutamento; d’altro canto, per creare nuovi istitutio occorre superare numerose rigidità, fra cui creare una fondazione  con il via libera della Regione. Inoltre, in un paese come l’Italia, in cui conta ancora il valore legale del titolo di studio, è difficile che gli studenti accorranno in gran numero senza la prospettiva di una laurea. La soluzione più ovvia sarebbe quella di far entrare in campo le università, che rilasciano titoli di studio appetibili sul mercato del lavoro e hanno da sempre la capacità di formare grandi numeri di studenti. Tuttavia, agli atenei mancano i docenti in grado di insegnare e lavorare direttamente con le ultime tecnologie: il rischio è che da una formazione professionalizzante con grandi competenze trasversali ci risposti verso insegnamenti accademici. 
Le università hanno recenemente proposto la sperimentazione di corsi di laurea professionalizzanti; poiché, però, pescherebbero nello stesso bacino degli Its, questi hanno subito reagito negativamente. Il Miur ha avviato un combattuto tavolo di lavoro, che ha portato ad una soluzione di compromesso tra i due schieramenti: gli Its continuano a fare quello che facevano prima, ovvero insegnamenti più vicini alle esigenze produttive; le università, invece, possono sperimentare al massimo un corso di laurea triennale professionalizzante per anno, a condizioni che riguardino quelle regolate degli ordini (geometri, periti ecc). 
Con premesse simili l’obiettivo dei 100mila iscritti non sembra possibile. Chi scrive è coinvolto in un tentativo di avviare una laurea professionalizzante, incentrata sulle competenze 4.0 e destinata all’industria manifatturiera del Nord-Ovest: l’idea è di salvaguardare il metodo degli Its, con l’esposizione diretta de lavoro con nuove tecnologie di ultima generazione, garantendo al contempo una laurea triennale, spendibile sul mercato del lavoro. Nonostante l’entusiasmo di tutti i promotori, l’esperienza si sta rivelando estremamente complicata e frustrante. Non si può avviare una laurea professionalizzante secondo i dettati dell’accordo tra Its e Crui (Conferenza dei Rettori), perché riguarda lavori che non prevedono l’iscrizione ad un ordine. D’altro canto non si puà chiedere alle università di riconoscere i crediti formativi maturati negli Its, che, con l’integrazione di un anno di corso, porterebbero alla laurea triennale. Infatti, nonostante sia un’indicazione della legge istitutiva e dello stesso tavolo ministeriale, la normativa che indica l’attribuzione in ciascuna classe all’acquisizione di un pacchetto di crediti in determinate aree scientifico-disciplinari impedisce agli atenei di riconoscere gli insegnamenti svolti negli Its. Alla fine, l’unica soluzione sarebbe che gli studenti, una volta terminato il biennio degli Its, si iscrivessero al primo anno di ingegneria per prendere la laurea triennale: un paradosso! 
Siamo di fronte ad una storia tipicamente italiana. da un lato grandi proclami sull’importanza della formazione professionalizzante alla tedesca; dall’altro, strenua difesa degli interessi di corporazione, norme sulla stessa materia in palese contrasto tra loro, istituzioni incapaci di trovare una soluzione che soddisfi un bisogno riconosciuto. E, nel frattepo, gli obiettivi di aumentare il numero dei nostri laureati nel nostro Paese e dare al sistema economico persone con un profilo professionale di alto livello sono destinati a rimanere una chimera. 

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