All'Università delle Hawaii per studiare il mesotelioma

Pietro Bertino, biologo laureato ad Alessandria: “studio l’anticorpo in grado di uccidere direttamente le cellule di mesotelioma e che ha un effetto molto importante anche sul sistema immunitario del paziente”
INTERVISTA – Quarantatré anni, laurea in Scienze Biologiche all’Università del Piemonte Orientale di Alessandria, specializzazione in Igiene all’Università di Milano e dottorato a Novara: Pietro Bertino dal 2007 è negli Stati Uniti per fare ricerca sul mesotelioma e attualmente è Associate Research Professor al Cell & Molecular Biology Department della John A. Burns School of Medicine – University of Hawaii.
Dottor Bertino, di che cosa si sta occupando alla John Burns?
Sto studiando l’anticorpo P4D2 che si lega in modo specifico alla galectina 9, una molecola poco studiata. Il mio laboratorio ha pubblicato i dati sugli effetti terapeutici di questo anticorpo l’estate scorsa. P4D2 non solo è in grado di uccidere direttamente le cellule di mesotelioma, ma ha un effetto molto importante anche sul sistema immunitario del paziente. È stato dimostrato che le masse tumorali del mesotelioma sono infiltrate da cellule del sistema immunitario chiamate macrofagi M2. A differenza dei macrofagi M1, gli M2 aiutano le cellule del tumore a crescere meglio e riducono l’efficacia delle terapie. P4D2 è in grado di ridurre in modo specifico ed in modo molto marcato la presenza di queste cellule. Nei nostri modelli animali di mesotelioma, P4D2 diminuisce la crescita tumorale e aumenta la sopravvivenza. Quando abbiamo combinato P4D2 ad altri tipi di immunoterapia, abbiamo osservato nei topi un aumento significativo dell’efficacia della terapia. Per ora P4D2 è un anticorpo che funziona solo nei topi. Se il mio laboratorio riceverà nuovi finanziamenti potremmo proseguire con l’umanizzazione dell’anticorpo. Una tecnica che modifica l’anticorpo e lo rende utilizzabile come terapia sull’uomo. Nel novembre scorso, la mia richiesta di finanziamento al National Institute of Health (l’equivalente del Ministero della Salute italiano) ha ottenuto un ottimo punteggio. Una tecnica che modifica l’anticorpo e lo rende utilizzabile come terapia sull’uomo. Se tutto continua in questa direzione, potremmo essere in grado di iniziare il trial clinico di fase 1 in un paio di anni. Inoltre, visto che l’ospedale di Alessandria sta diventando un Irccs c’è la possibilità di condurre lì questo trial clinico. A riguardo ho già preso contatto con gli oncologi dell’ospedale e stiamo discutendo la fattibilità del progetto.
La scorsa estate abbiamo pubblicato un altro articolo su una nuova terapia per il mesotelioma che riguarda un innovativo vaccino multi antigene in combinazione con un anticorpo immunostimolante. Il vaccino, sviluppato nel mio laboratorio, è ancora allo stato sperimentale e può essere usato solo in topi. Nel giro di un anno speriamo di pubblicare anche la versione per l’uomo. L’anticorpo immunostimolante è un agonista di OX40. Nella nostra pubblicazione abbiamo dimostrato che funziona bene anche da solo. Questo anticorpo è già stato umanizzato ed è già stato utilizzato nei trial clinici con altri tumori dove ha fornito ottimi risultati.
Perché è andato in America? In Italia non ci sono le stesse possibilità?
Il programma del mio dottorato richiedeva di passare l’ultimo anno in un laboratorio all’estero. Michele Carbone, uno dei più conosciuti ricercatori sul mesotelioma, si era appena trasferito all’Università delle Hawaii e cercava personale nel suo laboratorio. Io, a quel tempo, avevo appena pubblicato una ricerca sull’erionite (un minerale che, come l’asbesto, causa il mesotelioma) che a Carbone interessava molto. Quindi mi ha assunto come Visiting Student. Dopo aver preso il dottorato, Carbone mi ha chiesto di rimanere.
Nel nostro Paese questo non sarebbe potuto accadere?
In Italia il meccanismo è molto diverso. Negli Stati Uniti un giovane ricercatore incomincia presto a competere per i finanziamenti alla ricerca. Se li prende, va avanti nella carriera. Se non li prende, la carriera è finita. In Italia, entri in un laboratorio come precario e fai tutto quello che ti dice il tuo capo per anni senza obiettare. Alla fine, se tutti quelli che sono entrati in laboratorio prima di te abbandonano, l’Università bandisce un concorso ad hoc per te e finalmente ti danno una posizione da ricercatore di ruolo. Questo era il modo in cui funzionava quando ho lasciato l’Italia. A partire da questa legislatura, le regole sono cambiate e ci sono molti più controlli. Con questo governo sono anche raddoppiate le borse di studio e i finanziamenti alla ricerca. Dopo 20 anni di tagli qualcosa si sta muovendo in positivo anche in Italia. Il problema è, che se cade il governo, il prossimo esecutivo potrebbe tagliare nuovamente i fondi. È già accaduto in passato…
Pensa mai di rientrare in Italia?
Negli ultimi anni ci ho pensato spesso. Per ora non vedo come possa succedere. Ho provato a contattare l’Università di Genova nei mesi scorsi e ho ricevuto delle risposte imbarazzanti. È normale che tentino di proteggere i loro candidati interni. Se qualcuno arriva dall’estero con un curriculum come il mio, in Italia è un problema.
Ci sarebbero finanziamenti per le vostre ricerche in Italia?
Ci sono possibilità sia dallo Stato sia da associazioni private. Ci sono anche quelli dell’Unione Europea che sono simili ai grandi finanziamenti del National Institute of Health americano.
Le case farmaceutiche si dimostrano interessate alle vostre ricerche?
Negli ultimi anni sono tantissimi i laboratori universitari che inventano nuove possibili terapie. Di conseguenza le case farmaceutiche non si interessano più a quello che viene pubblicato o brevettato dai laboratori. È ora compito del ricercatore trovare i fondi per portare la possibile terapia alla sperimentazione umana. Se vengono dimostrate potenzialità terapeutiche nell’uomo, a quel punto le ditte farmaceutiche incominciano ad investire. Per testare una nuova terapia sull’uomo ci voglio milioni di euro. Questo perché il nuovo farmaco va prodotto in grosse quantità con un grado di purezza altissimo.
Che speranze ha oggi un malato di mesotelioma?
Purtroppo negli ultimi 15 anni non sono stati fatti grandi passi avanti nella terapia del mesotelioma. La cura standard per questa neoplasia è ancora oggi la combinazione cisplatino e pemetrexed. Una terapia approvata nel 2004. Fortunatamente, negli ultimi anni qualche trial clinico per testare nuove strategie terapeutiche ha dato buoni risultati. Speriamo che queste nuove cure vengano presto approvate per l’uso sui pazienti di mesotelioma. Nuove speranze possono anche arrivare dal trattamento personalizzato dei malati. È stato dimostrato che ogni singolo malato interagisce con la neoplasia in modo particolare. Di conseguenza, un approccio “personalizzato”, sebbene molto costoso, potrebbe dare risultati significativamente migliori. Il fatto che l’ospedale di Alessandria stia diventando un Irccs, dove in futuro ogni singolo paziente possa venir seguito in modo individuale, aumenta di molto le speranze.
Ci sono ancora nazioni che usano l’amianto…
L’amianto è stato proibito quasi in tutti i Paesi del mondo. Purtroppo alcune Nazioni come Cina e India lo hanno proibito solo recentemente. Il mesotelioma si sviluppa 30-40 anni dopo l’esposizione. Di conseguenza i casi di mesotelioma nel mondo sono destinati ancora ad aumentare. Un altro problema, è l’uso massiccio che è stato fatto in passato. In Italia, come negli Stati Uniti, l’amianto è ancora presente in molti edifici.
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