Nei giorni scorsi il Presidente del Consiglio Matteo Renzi ha risposto all’appello lanciato da un gruppo di ricercatori italiani vincitori di progetti di ricerca finanziati dallo European Research Council e attualmente al lavoro in atenei esteri. Nell’appello si criticano duramente le “condizioni di precariato, sudditanza e miseria economica” cui la situazione attuale del sistema accademico italiano costringe i giovani ricercatori. Il Presidente del Consiglio ha accolto l’intervento pubblico dei vincitori Erc come “un’ipotesi di cammino condiviso”.
“Prendiamo atto dell’interlocuzione avviata dal governo, che dopo mesi in cui si è mostrato sordo alle proposte di rifinanziamento strutturale dell’Università e della Ricerca e si è opposto alla possibilità di rendere i percorsi dei giovani ricercatori un po’ meno precari – con il rifiuto di estendere l’indennità di disoccupazione anche a loro – decide di dialogare con alcuni esponenti della categoria che ha a lungo ignorato”, scrivono in una lettera firmata al Corriere dell’Università Antonio Bonatesta – segretario dell’Associazione Dottorandi e Dottori di Ricerca Italiani e Alberto Campailla – portavoce di LINK – Coordinamento Universitario
“Auspichiamo che questo dialogo non sia appannaggio di pochi ma si allarghi fino a ricomprendere le tante voci con cui la comunità accademica nazionale ha fatto sentire le proprie istanze in questi mesi. Auspichiamo che questo dialogo conduca a una visione più ampia di quella mostrata dalla prima risposta del Premier, improntata a una retorica dell’eccellenza che, citando una serie di misure episodiche (alcune peraltro soltanto annunciate per il momento), non coglie la necessità di interventi sistematici per la riforma del sistema accademico. Il Presidente del Consiglio, insomma, sembra partire dal tetto, dimenticandosi gli interventi urgenti per le fondamenta dell’edificio, interventi senza i quali l’edificio non sta in piedi e non ha senso parlare di attrattività dell’Università italiana”. Per fare questo, i rappresentanti universitari indicano 4 tesi.
La prima tesi è che l’Università italiana è scarsamente attrattiva perché si basa sul precariato della ricerca. Oltre il 50% del personale universitario fa ricerca senza una posizione di ruolo, incastrato in un meccanismo di reclutamento che, dopo il dottorato, prevede una giungla di contratti parasubordinati (borse e assegni di ricerca) e a tempo determinato (ricercatori a t.d. di tipo “a” e “b”). Al netto dei periodi di lavoro gratuito, la “gavetta” in Italia dura almeno 12 anni mentre, stando ai tassi di reclutamento attuali, solo l’8% degli attuali 14.400 assegnisti di ricerca avrà la possibilità di concorrere per una posizione di ruolo (V Indagine annuale ADI), avendo superato da lungo tempo i 40 anni. Concordiamo con i vincitori dei fondi ERC quando scrivono “Allo scopo di attrarre ricercatori dall’estero e non far scappare molti dei migliori ricercatori italiani, è necessario presentare loro un piano chiaro per lo sviluppo della propria carriera.” Riteniamo che il primo passo per raggiungere questo obiettivo sia lo sblocco del turn-over in vigore dal 2008, un sostanziale innalzamento dei tassi di reclutamento – le misure contenute nell’ultima legge di stabilità sono largamente insufficienti – e una riforma del pre-ruolo che semplifichi le figure contrattuali e aumenti le tutele.
La seconda tesi è che l’università è poco attrattiva perché finanziata poco e male. A partire dal 2009, il sistema accademico nazionale ha accumulato tagli per circa 800 milioni di euro che si sono abbattuti in modo differente sui diversi territori, colpendo soprattutto il Mezzogiorno. Un grande numero di università deve così ridimensionarsi e i primi a farne le spese sono studenti e ricercatori precari. E’ indispensabile dunque aumentare il finanziamento all’università italiana e ripensarne la distribuzione, distinguendo nettamente quota ordinaria e quota premiale con il fine di aumentare il livello medio di tutto il sistema . In merito ai progetti di interesse nazionale, come nel caso di Human Technopole, riteniamo che gli enti pubblici di ricerca e le università debbano avere priorità nella destinazione del finanziamento statale, che deve essere ripartito secondo criteri di trasparenza condivisi dalla comunità accademica nazionale.
La terza tesi è che non esiste l’università senza i suoi studenti. Banale, eppure la situazione del Diritto allo Studio nel nostro paese è drammatica e gli interventi messi in campo dal Governo risultano insufficienti, come nel caso del recente decreto di aggiornamento delle soglie Isee e Ispe, che non ha reintegrato totalmente la platea degli esclusi dalla borsa di studio. Solo il 10 % degli studenti è beneficiario di borsa di studio contro il 19% della Spagna e il 27 % della Francia. Il sistema per come è strutturato inoltre produce delle profonde sperequazioni tra le regioni che passano da un 100% di coperture delle borse (Toscana) al 32% della Sicilia. Occorre pertanto rivedere in senso estensivo i livelli essenziali delle prestazioni per l’accesso ai servizi del diritto allo studio e assicurare un fondo statale stabile in grado di coprire tutta la platea ripartito su meccanismi unicamente basati sul fabbisogno che consenta di eliminare la figura dell’idoneo non beneficiario. Sarà importante istituire una borsa servizi, sul modello toscano, in grado di costituire una misura cuscinetto per coloro che superano di poco le soglie previste per l’accesso alla borsa di studio.
La quarta e ultima tesi è che nel sistema universitario italiano, in nome della qualità e di modelli di valutazione non condivisi, in questi anni si sono prodotte storture e iniquità che hanno colpito sia la didattica sia la ricerca. Occorre ripensare i meccanismi e le finalità della valutazione della ricerca scientifica per arrestare i conseguenti processi di desertificazione territoriale, di riduzione dell’accesso al sistema universitario e di impoverimento dell’offerta formativa.
“Se il Governo vuole davvero dimostrare “che ci sta”, allora più che ripartire dal “Top” (fondi Top Talents, Ricerca italiana di eccellenza ecc.) parta dalla base, dalle fondamenta. Senza mettere in sicurezza quelle, l’edificio dell’Università italiana rimarrà precario, come il destino di migliaia di giovani ricercatori”, concludono.