Università, cambiare per crescere

migliorare.jpgCome migliorare l’Università italiana? Carlo Bernardini, uno dei maggiori fisici e intellettuali italiani contemporanei, affronta un tema caldo di questi giorni. Il suo pamphlet “Il cervello del Paese. Che cosa è o dovrebbe essere l’Università” (edito dalla neonata University Press Mondadori Università – Sapienza Università di Roma) offre al lettore una descrizione rapida ma realistica sia di ciò che accade nell’Università italiana sia di ciò che potrebbe accadere per migliorarne il funzionamento e non solo l’immagine esterna.
L’Università italiana – “cervello del Paese” – in questi ultimi anni è cambiata radicalmente e ormai da tempo tra l’istituzione e la sua immagine nella pubblica opinione ci sono spesso differenze profonde e, i luoghi comuni, nei mezzi di comunicazione di massa, si sprecano.
Al di là delle valutazioni sui pregi e i difetti della riforma, Bernardini si interroga sui fattori profondi e di lunga durata che influenzano l’attività accademica e le sue ricadute per il Paese: il rapporto tra docenti e allievi, la qualità e i criteri di valutazione del corpo docente sia sul piano scientifico sia sul piano della didattica, il valore della laurea, le ragioni e gli effetti dell’autonomia, il criterio di assegnazione dei finanziamenti, e soprattutto «l’effettiva partecipazione paritaria di tutta la popolazione ai più alti livelli di istruzione».
La convenienza di un sistema universitario pubblico, come quello italiano, sta «nell’affrancamento del livello culturale dalla ricchezza delle famiglie. Per lo sviluppo di una democrazia completa è indispensabile la partecipazione paritaria di tutta la popolazione; ciò implica che i più alti livelli culturali siano accessibili indipendentemente dall’eventualità di doverli pagare con quote di iscrizione differenziate a seconda della qualità didattica offerta».
«In Italia – dice l’autore – con le proposte del ministro dell’Economia Giulio Tremonti, la tendenza recente è quella di spingere verso una “privatizzazione opzionale”, in cui le Università possono diventare Fondazioni affidate al buon cuore dei mecenati e alle tasse studentesche: si arrangi chi può, insomma, e basta con l’Università pubblica, che ha fatto inutilmente proliferare il numero dei professori».
«Se il mondo universitario – aggiunge – non trova tra i suoi esponenti dei nuovi leader che facciano veramente il pubblico interesse, cioè che si adoperino per far crescere una cittadinanza abbastanza colta e competente perché il bene pubblico prevalga, non c’è da aspettarsi granché da qualunque politica attualmente responsabile delle nostre sorti. Io ho molte preoccupazioni per il futuro dell’Università: sono preoccupazioni che mi vengono da ciò che la comunità accademica non fa piuttosto che da ciò che fa».

Manuel Massimo

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