Seconda prova: Latino, versione di Quintiliano

Seconda prova Quintiliano

SECONDA PROVA LATINO, TOCCA A QUINTILIANO. Ecco, dopo pochi istanti dall’apertura delle buste, arrivare le prime indiscrezioni. Secondo i rumors tocccherebbe a Marco Fabio Quintiliano (latino: Marcus Fabius Quintilianus; Calagurris, 35-40 d.C. – Roma, 96 d.C.) un oratore romano e maestro di retorica stipendiato dal fiscus imperiale. Ve ne proponiamo una breve storia.

 

Biografia

 

Marco Fabio Quintiliano nacque a Calagurris Iulia Nasica nella Spagna Tarraconensis nel 35 d.C. Si trasferì in tenera età a Roma dove poté seguire lezioni di Remmio Palèmone e di Servilio Nonanio. Inoltre poté conoscere e quindi ascoltare il retore Domizio Afro, e Seneca. Finiti gli studi ritornò in Spagna dove poté restare fino al 68 esercitando la professione di maestro di retorica; in seguito a quella data venne ricondotto a Roma da Sulpicio Galba che in quel medesimo anno divenne imperatore.

 

Giunto a Roma nel 68, vi esercitò probabilmente l’avvocatura e soprattutto incominciò la sua attività di maestro di retorica, con tanto successo che nel 78 Vespasiano gli affidò quella che può ben dirsi la prima cattedra statale in assoluto. L’imperatore gli accordò un onorario annuo di 100.000 sesterzi, dando un concreto riconoscimento all’importanza dell’arte retorica nella formazione della gioventù e della futura “classe dirigente”. Dopo vent’anni d’insegnamento, decise di abbandonare l’incarico e si dedicò alla stesura in un primo momento di un dialogo in cui espose la propria posizione sulla crescente corruzione dell’arte dell’eloquenza (l’opera perduta De causis corruptae eloquentiae), e poi dell’opera più importante, l’Institutio oratoria.

Ma se la vita pubblica di Quintiliano fu abbastanza agiata, quella privata fu turbata da gravi sventure domestiche, come la morte della moglie giovanissima e di due figli.

Fra i suoi numerosi allievi, ebbe Plinio il Giovane e, forse, Tacito; Domiziano lo incaricò nel 94 dell’educazione dei suoi nipoti, cosa che gli valse gli ornamenta consularia, ovvero il titolo di console, nonostante non avesse mai rivestito nel corso della propria vita questa carica.

Morì nel 96 d.C. o poco dopo.

 

Opere

 

Di Quintiliano è andato perduto un trattato, De causis corruptae eloquentiae, così come le Artes rethoricae, sorta di dispense. Spurie le due raccolte di “declamazioni” (“maiores” e “minores”). Per la sua professione d’avvocato, dovette anche scrivere delle orazioni, andate perdute, delle quali si conosce la buona opinione che si erano guadagnate presso i contemporanei.

Institutio oratoria

Il suo capolavoro – dedicato a Vittorio Marcello, funzionario della corte di Domiziano, per l’educazione del figlio Geta – è l’Institutio oratoria (90-96 d.C.), cioè “la formazione dell’oratore”, che compendia l’esperienza di un insegnamento durato vent’anni (dal 70 al 90 ca). Scopo di quest’opera è fungere da manuale per coloro che vogliano impegnarsi nell’ars oratoria.

 

De causis corruptae eloquentiae

Nel saggio De causis corruptae eloquentiae, Quintiliano affronta un problema già rattato in precedenza da Seneca il Vecchio e da Petronio e che verrà riproposto, qualche anno dopo, da Tacito. Il trattato è andato perduto, ma è possibile ricostruirne le linee di fondo.

Diversamente da Seneca il Vecchio e da Tacito, che misero in relazione la decadenza dell’oratoria con il più generale declino della società romana, Quintiliano attribuiva la crisi dell’oratoria primo alla carenza di buoni insegnanti, secondo al nuovo stile che era prevalso nelle scuole di retorica, e che egli vedeva rappresentato soprattutto da Seneca, e infine alla moda delle declamazioni (principale esercizio pratico di preparazione all’attività pubblica oratoria) impostasi nei decenni precedenti.

Quintiliano non era ostile alle declamazioni in quanto tali: ne ammetteva l’utilità quale esercitazione oratoria, ma era contrario alla centralità che esse avevano assunto nelle scuole di retorica dell’epoca.

Stile

Nel suo tentativo particolare di “recupero formale” della retorica, poi, Quintiliano si oppone da un lato agli eccessi del “Nuovo Stile”, cioè della nuova prosa di tipo senecano (Seneca è uno dei suoi bersagli preferiti) e allo stile acceso delle declamazioni (che mirano a “movere” più che a “docere”), dall’altro al troppo scarno gusto arcaico. E propone anche qui – come altrove – il modello di Cicerone (modello di sanità di espressione che è insieme sintomo di saldezza di costumi), reinterpretato ai fini di un’ideale equidistanza appunto fra asciuttezza e ampollosità, ovvero di un equilibrato contemperamento dei tre stili “subtile”, “medium” e “grande”. L’autore, però, sia in teoria, sia soprattutto nella pratica della sua prosa, testimonia l’indulgere a concessioni al nuovo gusto per l’irregolarità e per il colore vivace. Spesso presenta tratti bozzettistici che evidenziano il compiacimento dell’autore.

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