Sergio Cavalieri, professore ordinario di Operations Management alla Facoltà di Ingegneria gestionale, è il nuovo rettore dell’Università di Bergamo. In carica dalla scorsa settimana, ha evidenziato fin da subito cosa bisognasse fare per supportare la popolazione studentesca in questo difficile periodo dove non si è ancora ritornati ad una reale vita universitaria pre Covid-19. Corriereuniv.it lo ha intervistato per capire qual è la sua idea di università e quali sono gli obiettivi che si prefigge di raggiungere durante gli anni del suo mandato.
Rettore, uno dei punti del suo programma riguarda l’aumento di attività extracurruculari degli studenti, ci può spiegare quali sono e in che modo intendete estenderle?
Sotto questo aspetto non partiamo da zero, abbiamo già delle attività extracurriculari che possono essere inserite nel percorso formativo degli studenti come crediti. Quando svolgevo il ruolo di prorettore della Terza Missione abbiamo portato avanti delle iniziative per la formazione imprenditoriale degli studenti attraverso quella che abbiamo chiamato “startcup school”, che mette insieme formazione e orientamento. Abbiamo creato una summer school di una settimana che in alcuni corsi di laurea è stata creditizzata con sei cfu. Questo è il modo in cui è possibile portare avanti della formazione extracurriculare che non sia per forza pertinente con il corso di laurea ma che possa far parte dei crediti liberi del piano di studi.
Un progetto a cui tengo particolarmente è quello dell’open campus, cioè rendere ancor più attrattivi i luoghi dell’università. Perché uno dei problemi che stiamo affrontando con la didattica duale è che gli studenti vivono meno l’università, aumentando un senso di scollamento che li isola sempre di più. Vorrei che l’università fosse oltre un luogo di formazione anche di aggregazione, dove le persone possano far crescere un senso civico come cittadini.
Il rapporto sui costi annui dell’università presentato dall’Unione degli universitari nei giorni scorsi ha evidenziato che il costo per i trasporti dell’Università di Bergamo si attesta sulla media nazionale, 200 euro per il trasporto urbano, -36% rispetto l’abbonamento normale, prevede ulteriori agevolazioni?
Il costo fa riferimento ad una convenzione che abbiamo con l’azienda di trasporti bergamasca per collegare le varie sedi universitarie su perimetro urbano. Noi abbiamo circa 2500 abbonamenti su una popolazione di 24mila studenti, un buon 10% usufruisce di questo abbonamento quindi, la differenza di prezzo la paga l’università. A questi, poi, si aggiungono i tanti studenti fuorisede, che si riferiscono in questo caso al trasporto extraurbano dove abbiamo una convenzione di 470 euro annui, con 900 abbonamenti attualmente attivi. In più abbiamo un accordo con Trenord di una scontistica del 10%. Ovviamente uno dei punti sui quali lavoreremo è di avere una mobilità sostenibile, che per noi è molto importante, non a caso io ho previsto una delle nuove deleghe sullo sviluppo sostenibile per lavorare a delle agevolazioni non soltanto dei costi ma per l’intermobilità degli studenti. Se ci saranno possibilità di avere ulteriori scontistiche con il nostro budget lo faremo, ma punteremo molto sulla sostenibilità.
Quali problematiche hanno riscontrato i docenti di UniBergamo nell’uso della didattica mista e quali iniziative intende prendere come rettore nel caso la curva del contagio dovesse peggiorare durante l’inverno?
La didattica mista non è tra le migliori soluzioni possibili e crea difficoltà per il docente che deve diventare “strabico” per guardare la classe in presenza e quella in remoto. Il rischio è sempre quello di marginalizzare questi ultimi perché applicare contemporaneamente due metodi di apprendimento differenti è difficile, se non impossibile. Noi stiamo facendo un ragionamento su come valorizzare al meglio la tecnologia digitale finché durerà questa maledetta pandemia, ma l’obiettivo è di non riportare le lancette a due anni fa cercando di sfruttare al meglio l’avanzamento digitale.
Nel breve periodo le opzioni sono due riguardo al ritorno di alti contagi, continuare il secondo semestre con una didattica duale anche a febbraio, sarà difficile brindare alla fine del covid, oppure se dovesse esserci una recrudescenza della pandemia – con conseguente ritorno in zona rossa – torneremo completamente con la didattica a distanza. Spero, però, che questo non avvenga. Grazie ai finanziamenti ricevuti tutte le aule sono munite ormai dell’attrezzatura necessaria quindi non avremo comunque problemi in tal senso.
In quali progetti la vostra università prevede di spendere i fondi del Pnrr?
I fondi dovranno essere usati in progetti di collaborazione con altre università e stakeholders. Bisogna fare massa critica e uscire dai campanilismi. L’Università di Bergamo ha già avuto esperienze di questo tipo facendo parte del competence center made presso il Politecnico di Milano, insieme all’università di Brescia, di Pavia e a tante aziende. Ovviamente partorire queste realtà, che poi di fatto sono un consorzio, non è facile. Bisogna trovare un accordo comune perché molti hanno obiettivi che rischiano di essere certe volte conflittuali tra loro, però, nel momento in cui si capisce qual è l’intento comune, possono essere delle belle opportunità per le stesse università e per il sistema Paese. Ci vuole tempo, questo deve essere chiaro. Per far partire un centro nazionale non bastano uno o due anni, ne servono diversi, soprattutto con risorse come quelle del Pnrr.
Riguardo il documento presentato dalla Crui per una riforma dell’Università è d’accordo con il punto che riguarda la proposta del reclutamento per cooptazione di docenti e ricercatori?
Il tema è molto delicato. Ci sono degli aspetti positivi e negativi in questa proposta. Noi facciamo sempre riferimento ai ranking dove le università italiane sono indietro, anche perché il rapporto studenti docenti in Italia è molto alto rispetto gli atenei europei, soprattutto perché non possiamo reclutare direttamente ma abbiamo dei vincoli da rispettare e anche le università con bilanci virtuosi non possono assumere senza il consenso del ministero. Io vedo molto positiva la chiamata diretta come avviene nel mondo anglosassone perché così si responsabilizza chi effettua la chiamata in modo da avere un profilo che sia specifico per quel determinato lavoro, con i concorsi invece c’è una deresponsabilizzazione perché la selezione viene fatta da una commissione che può anche scegliere il migliore tra i candidati ma magari non corrisponde specificatamente a quel profilo richiesto dal team di ricercatori.
Si potrebbe così creare un disallineamento tra il profilo richiesto dal gruppo di ricerca e chi poi effettivamente occupa quella posizione. Quando si assume un ricercatore, non si assume una persona che fa lezione e finisce lì, ma deve operare nel gruppo di ricerca, deve far crescere altre persone e deve condividere quelle che sono le linee strategiche del gruppo di ricerca. Dove ciò non avviene diventa devastante per il gruppo stesso. Questo, però, non significa che deve essere un profilo cresciuto in quell’università, posso anche prenderlo dall’estero ma devo poter rendere attrattiva la sua mobilità. Ad esempio colleghi che sono stati fuori hanno potuto negoziare il proprio contratto, non hanno dovuto sottostare a categorie salariali così rigide e strutturate che abbiamo in Italia. Questo significa poter proporre un accordo che mi permetta di dare qualcosa in più come remunerazione, inoltre questa contrattualistica andrebbe collegata al costo della vita del luogo in cui si va: se io vado a Londra sarà diverso rispetto ad Exeter. Non solo. L’università dovrebbe garantire altri benefici, come ad esempio la possibilità di dare risorse per il trasferimento e dare la possibilità di far trasferire anche la famiglia di questa persona.
Nel medesimo documento di proposte della Crui si avanza l’ipotesi che i cda possano dare obiettivi e giudicare l’operato dei direttori di dipartimento in base a dei parametri, è d’accordo con questa proposta?
Nello stesso documento c’è un passaggio riguardante il piano strategico d’ateneo che dovrebbe essere visto come l’elemento di contrattazione tra l’università e il ministero, cioè il master plan nel quale sono individuati sia gli obiettivi che l’ateneo si prefigge, sia quelli dei singoli dipartimenti. Questo è il luogo dove bisognerebbe definire bene quale indirizzo dare, perché un cda che indica verticalmente gli obiettivi del direttore di un dipartimento, e di conseguenza di quello specifico dipartimento, rischia di creare uno scollamento tra vertici e organi intermedi. Poi sulle basi di cosa vengono definiti gli obiettivi? Se invece questo è frutto di un processo partecipativo discusso nei vari livelli allora la condivisione degli obiettivi di un piano strategico di ateneo e come declinarli otterrebbero un maggiore consenso, il cda in quel caso avrebbe il compito di monitorare e valutare.
Quali sono le iniziative che le stanno più a cuore?
Sicuramente avere i nostri campus per gli studenti, che siano luoghi di vita della cittadinanza e questo è un bell’obiettivo che richiederà sforzi gestionali e organizzativi non da poco. L’altro aspetto è quello di avere una maggiore cultura della programmazione e dei processi gestionali che vada oltre le singole unità. Questo è un aspetto molto importante che permette ad un ateneo di funzionare meglio. Ed è anche un sollievo per i docenti che oggi sono gravati da troppe attività burocratiche mentre dovrebbero usare principalmente il loro tempo per dedicarsi alla ricerca e alla formazione. Un’università cresciuta molto come la nostra deve fare questo passo e spero nei prossimi sei anni di riuscire anche in questo obiettivo.
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