Quando i laureati italiani se ne vanno: “Stiamo perdendo una generazione intera”

ESPRESSO

Se ne vanno in cinquemila, ogni anno. Sono i migliori, quelli con i voti più alti, quelli che partecipano a tutte le lezioni, quelli che danno in tempo gli esami: quelli che partono dall’Italia con un contratto di lavoro in mano (già firmato). Noi li formiamo, insomma, e loro li assumono.

E’ la generazione dei laureati italiani, quelli migliori, costretta ad abbandonare il paese. Un export di cervelli e competenze che va dall’ingegneria all’economia, passando addirittura per i medici. L‘Espresso ha voluto calcolare in media quanto lo Stato spenda per formare ogni studente, prima che questi lasci il suo paese in vista di stipendi e certezze all’estero. 175 milioni di euro: è questa la somma che spendiamo per formare i talenti prima di lasciarceli scappare.

Progettisti hi-tech, economisti, medici, matematici, tecnici di relazioni internazionali: chi va all’estero non è certo un genio, ma non sarà l’emigrante di turno costretto a fare il barista per vivere. Se ne va a far crescere l’economia di un paese, che non è più il nostro.

Venticinque anni, una laurea specialistica in mano e grandi aspettative: è questo l’identikit del laureato italiano medio con la valigia in mano. E con un inglese parlato finalmente bene.  “A chiederci opportunità per fuggire sono i più ambiziosi, i più capaci. Anche qui nel Nord Est, ormai, dove potrebbero trovare le stesse occasioni?” – racconta a Francesca Sironi il professor Tommaso Dalla Massara, docente di Diritto romano e delegato all’orientamento dell’università di Verona. Lo stipendio medio all’estero è il doppio di quello che potrebbero avere in Italia. “Ma non è solo una questione di soldi” – sottolinea il professore.

Lorenzo Raffaelli ha 30 anni ed è stato assunto nel 2008 dalla Rolls-Royce. “Qui la carriera è assicurata. Ai giovani danno credito e responsabilità – racconta ancora a Sironi. Avevo ricevuto offerte a Firenze, dove ho studiato. Ma erano per mansioni di secondo piano, con contratti a progetto, senza garanzie. Mi consideravano troppo giovane per entrare in azienda”. Dal 2008 Lorenzo ha ricoperto ruoli sempre migliori: oggi gestisce un gruppo di talent-scout che vanno negli Atenei migliori al mondo per scovare gli studenti migliori: “Offriamo assunzioni a tempo indeterminato, tirocini pagati 27mila sterline, oppure stage retribuiti per chi deve ancora frequentare i corsi”. E ad ogni presentazione si fanno avanti centinaia di candidati.

I numeri, poi, sono impressionanti. Il sette per cento degli universitari che trovano impiego a un anno dalla laurea, è fuori dal Paese. Un quarto degli economisti sfornati dalla Bocconi nel 2013, oggi è assunto a Parigi, a Shangai, a New York. Cinque anni fa era meno del 15 per cento. Metà degli ex studenti di finanza a Verona ha già firmato un contratto in inglese. Su “Eures”, il portale dell’Unione Europea per gli annunci di lavoro, in questo momento sono presenti con il loro curriculum più di 190mila connazionali che sperano di andarsene, oltre il doppio di portoghesi, romeni e polacchi. E nel 2012, fotografa l’Istat, più di 14mila laureati hanno spostato la loro residenza al di là dalle frontiere, alla ricerca di quel futuro già agganciato dai cinquemila rampolli che secondo l’ultimo rapporto di Almalaurea, il consorzio di 64 atenei che certifica i dati sull’occupazione dei laureati, vengono assunti ogni estate dalle aziende straniere.

“Stiamo perdendo il nostro capitale umano meglio formato”, commenta il presidente di Almalaurea, Andrea Cammelli: “Quel sette per cento di occupati all’estero è molto concentrato in alcune discipline, soprattutto quelle scientifiche. Ragazzi con la media del 30 che in Italia non trovano spazio”. “Venticinque anni fa a lasciare l’Italia, spinti dal desiderio di continuare a studiare oltre ai limiti di quello che l’università italiana poteva offrirci, eravamo in pochi. Pianificavamo tutti di tornare, anche se poi per molti le cose sono andate in altro modo. Oggi ad emigrare sono in tanti. Non solo per ricerca, ma per lavoro, per ottenere quelle prospettive di carriera che sono negate loro nel nostro Paese. È una fuga che si preannuncia senza ritorno. Ma perché quella che era una goccia si è trasformata in un fiume in piena?” – scrive Luigi Zingales.

In questo momento in Italia a suon di proteggere tutti i diritti “acquisiti”, abbiamo finito per lasciare i nostri giovani senza speranza. È giunta l’ora, secondo Zingales, di ridiscutere tali diritti, non per sostituirli con un giovanilismo disperato, ma per rimpiazzare all’anzianità il merito. Speriamo che il più giovane presidente del Consiglio della nostra storia sia in grado di effettuare questa trasformazione. Non solo per il bene della sua generazione, ma per quello di tutto il Paese.

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