L’orco nell’Università: quando i predatori sono i tuoi docenti

Molestie sessuali e violenze psicologiche nelle università. Quando l’abuso dell’uomo è in cattedra. Storie di ragazze che hanno denunciato e si sono trovate sole

C’è un luogo se possibile più separato di altri dove la violenza del maschio continua a godere dell’omertà assicurata dal rango, dall’omertà di casta, dalla paura delle vittime: le università. Da Catania a Venezia, a Milano, storie di ragazze e dei loro aguzzini. Quelle che hanno avuto la forza di denunciare. Quelle che hanno pensato che dimenticare fosse meglio. Una bella inchiesta di Repubblica.it per rompere il silenzio.

Il prof orco e la stanzetta

Il racconto di una professionista dei suoi anni all’università quando il coordinatore di Fisiopatologia circolativa la chiamava nella sua stanza. “Si avvicinava, mi abbracciava, si spostava e mi stringeva da dietro. Si appoggiava, voleva farmi sentire quanto mi desiderava. E, spesso, lasciava la porta del suo ufficio aperta”. Dice: “Sono stata molestata per tre anni consecutivi da studentessa, per altri tre anni, professionista laureata, ho affrontato nuovi incubi”. E ancora: “Ho subito violenza dal professore che gestiva il corso per diventare perfusionista cardiovascolare, lui organizzava le lezioni e il calendario, ti valutava in diversi esami”. Era un docente influente nella Cardiochirurgia dell’Università di Catania.

Una stanza stretta e corta al piano terra dell’ospedale Vittorio Emanuele Ferrarotto, ora che in un ambulatorio privato ai piedi dell’Etna ha scelto di liberarsi: “Il professor Santo Torrisi, responsabile delle attività di tirocinio, ha fatto a me quello che ha fatto a molte studentesse, alle colleghe più giovani. Abbiamo firmato la prima denuncia in tre, poi a testimoniare sono venute in dieci”. Il professore, di fronte alle evidenze, è stato prima sospeso e poi licenziato. In cinque anni di processo, sono state ascoltate quattro parti offese.

Gli altri casi in ospedale

Una giovane perfusionista, un’amica, aveva preferito licenziarsi pur di liberarsi di un simile assedio. Una collega esperta, da trent’anni dipendente, ricordava il suo periodo di ingresso: c’era già Torrisi in corsia, ci furono le molestie. “Sono certa che molte donne del reparto abbiano accettato di subire. Lui puntava sul ruolo, sottolineava il suo potere. Incuteva paura. Non importunava tutte, sceglieva le donne giovani e con il seno grande. Per stare bene nel gruppo, per tenere il posto di lavoro, puoi finire per accettare. Succede. L’ambiente ospedaliero è maschile, maschilista. Dentro un ospedale non siamo mai uguali”.

Micol smette di frequentare il corso, ed è già al secondo anno: “Non avevo più un momento di libertà”. Diversi colleghi uomini intervengono. Lo fa anche il fidanzato chirurgo, che affronta Torrisi: “Ma che dici?”, allarga il sorriso il coordinatore, “io tratto le mie scolare come fossero figlie, è tutto un malinteso”. La studentessa tiene duro, rientra negli studi: “Immaginavo che tutto questo sarebbe finito”.

Dopo la laurea continuano le molestie dell’orco

Quando la perfusionista, ora pubblica dipendente, prova ad allontanarsi dal suo controllo, il docente a contratto diventa cattivo. “Se non riconoscevo la sua figura di capo, mi apostrofava, mi appiccicava etichette degradanti”. La metteva, ricorda, contro i colleghi di lavoro. “Decisi di non subire più e andai dal direttore dell’unità operativa, con il cuore in mano, come poteva fare una ragazza di 23 anni. Chiedevo aiuto e raccontai tutto quello che avevo subito. Volevo uscirne. Il direttore, Carmelo Mignosa, senza mai cambiare sguardo, mi fece assaporare la prima porta chiusa. Mi ci sarei dovuta abituare. Disse, freddo, che lui e il Torrisi erano grandi amici, che il professore aveva giurato sulla famiglia che i suoi comportamenti erano sempre stati corretti e che le mie erano grandi menzogne, allestite per togliergli il posto di lavoro. Disse che era meglio se me ne fossi andata”.

Quel direttore era un cardiochirurgo quotato in Sicilia, aveva lavorato all’estero: “La mia parola di neolaureata contro la sua era niente”. Il colloquio con il responsabile del reparto cambiò l’atteggiamento intorno alla perfusionista. “Quando vedi un primario d’esperienza prendere quella posizione, diventa dura schierarti con la vittima”. La giovane non demorde e spinta dai colleghi raduna tutte le donne molestate dal docente, una decina: “Scrivemmo alla presidente del corso di laurea, Valeria Ilia Calvi. Una donna, appunto. Convocò subito una riunione, ci ascoltò, si mostrò scossa: ‘Quello che è accaduto è grave’. Promise provvedimenti, ma al secondo incontro, convocato un mese dopo, trovammo una persona diversa: la presidente del corso aveva trasformato la sua compassione in una difesa attiva di Torrisi. ‘A chi è uscito dal triennio e si è laureato non posso dare nulla, alle nuove studentesse dico che se il professore non mostrerà atteggiamenti dubbi continuerà a essere il vostro docente’. Credo fosse stata raggiunta e istruita dai vertici aziendali”.

Il rettore e la magistratura

Con due colleghe decidemmo di scrivere al direttore generale, Salvatore Paolo Cantaro, e al rettore dell’Università di Catania, Giacomo Pignataro. Quella lettera, sì, la firmammo solo in tre. Era una denuncia a tutti gli effetti, le altre non se la sentirono”. Siamo a settembre 2014. “Nell’esposto c’era l’esperienza di ciascuna di noi”. Il rettore la girò alla Procura di Catania e il pm Marco Bisogni la trasformò in un procedimento penale. Le testimonianze erano concordanti e l’Azienda sanitaria fu costretta ad aprire un procedimento disciplinare. Il professor Santo Torrisi venne sospeso per sei mesi e poi licenziato.

La giovane professionista ha denunciato anche il primario, quello della porta chiusa, “io e Santo siamo amici”. Primo aprile 2015, la difende l’avvocatessa Roberta Marchese. Da quella querela nascono due procedimenti. Il primo per omessa denuncia e favoreggiamento. Le intercettazioni, perché per l’inchiesta principale sono state concesse le intercettazioni telefoniche e anche installate le telecamere nascoste, rivelarono che il direttore continuava a mantenere rapporti con il presunto molestatore: “Torrisi continua a telefonarmi per il procedimento interno”, dirà a un collega. Mette in guardia “Santu u porcu” dai rischi che sta correndo, come si legge nell’ordinanza del Gip che sancisce gli arresti domiciliari di Torrisi: “Quel tuo vizietto ti porterà in carcere”. Il Gip chiosa: “Il Torrisi si consiglia in ordine alle strategie difensive da seguire con il Mignosa”. Dice Micol: “Non ci ha mai offerto una tutela, non ha mai denunciato”.

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