L’Italia riparte, la scuola no. Per gli scienziati anche settembre è a rischio

Il governo si appresta a presentare il piano di riapertura. Il lockdown lentamente finirà. Sarà un percorso a tappe, con possibili stop and go. Ma l’Italia dal prossimo 4 maggio potrebbe cominciare a rivedere la luce del futuro. I principali settori produttivi, uno dopo l’altro riprenderanno. Eppure nell’affollata turnazione a cui assisteremo tra qualche settimana per la scuola non c’è posto. E non ce ne sarà almeno fino a settembre prossimo.

Il suo futuro è stato affidato a un neonato comitato tecnico. Comitato che non potrà, però, fare a meno di tenere conto di quelle che sono le indicazioni di un altro comitato, quello scientifico. Gli scienziati che compongono quest’ultimo hanno già fatto sapere che la scuola è una sorta di bomba che non può essere innescata. Quindi in aula si andrà solo quando ci sarà rischio zero o quasi.

Gli stessi scienziati hanno poi detto che in autunno è certa una nuova ondata di contagi. Forse anche più invasiva e violenta della prima. Con un simile annuncio è ipotizzabile progettare un anno scolastico in presenza? Ma è possibile ipotizzare una scuola che sia solo a distanza, che abdichi dal progetto didattico della compartecipazione e della condivisione fisica? Le risposte dovrebbero arrivare dagli esperti, tra i quali si nota una sola docente di ruolo su diciotto componenti. Risposte che dovrebbero essere quasi immediate, perché sembra essersi dimenticati che da ormai due mesi otto milioni e mezzo di studenti sono chiusi in casa. Il loro equilibrio psicofisico è seriamente a rischio. Come quello dei loro docenti, che stanno combattendo una battaglia impari. La ministra Azzolina non fa che ribadire le mirabilie della didattica online. E’ il suo ruolo. O forse è il ruolo che si è ritagliata. Dimentica che quasi due milioni di studenti non  hanno internet. Che in tantissimi non hanno un pc e nemmeno uno smartphone e che ancora in molti non hanno ricevuto quello comprato dallo Stato.

Di queste difficoltà risentono soprattutto i bambini più piccoli, quelli che vanno dagli 0 ai 6 anni, e gli studenti della scuola primaria, che non sono in grado di fare didattica a distanza in modo autonomo e hanno bisogno dell’aiuto dei genitori, che non sempre sono in grado di seguirli se lavorano da casa. Tenere le scuole chiuse ancora a lungo, senza sostituirle con strutture dove i bambini possano essere accolti all’esterno della famiglia, rischia di aggravare le disuguaglianze e peggiorare le situazioni più difficili, dalle esigenze dei bambini disabili a quelli che vivono situazioni di disagio e violenza domestica.

La scuola non può restare sospesa nell’attesa che passi lo tsunami. Perché i danni sarebbero maggiori dei benefici.

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