“Io non c’entro niente”. L’appello di Simone Di Renzo arrestato per aver pestato uno studente all’Università di Milano

studente arrestato
Uno studente chiuso nella sua cella in carcere

Studente arrestato per pestaggio – In una lettera dal carcere il ragazzo afferma la sua innocenza. Era stato arrestato insieme a un altro attivista lo scorso 14 febbraio. L’aggressione scatenata da un semplice disegno su un manifesto

 

Con una lettera postata sul suo profilo Facebook, Simone Di Renzo, lo studente di 26 anni arrestato insieme a un altro attivista, Lorenzo Kalisa Minani, con l’accusa di aver aggredito e lasciato in fin di vita un altro ragazzo all’Università Statale di Milano, lo scorso 14 febbraio, ha affermato la sua innocenza.

Interrogato dal GIP di Milano, Cristina Di Censo, il ragazzo avrebbe dichiarato: “Io non c’entro niente; questo ragazzo, Federico, non lo conosco e che non avevo idea che quella sera fosse andato via in quella maniera”.

Nell’ordinanza di custodia cautelare firmata dal procuratore, tuttavia, si legge che i due ragazzi: “avrebbero colpito ripetutamente con calci e pugni un altro studente, cagionandogli lesioni gravissime consistite in una deformità fronto-orbitaria del capo (deformazione permanente del viso), tale da richiedere un importante intervento chirurgico riparatorio maxillofacciale”. Motivo dell’aggressione sarebbe stato “un disegno con un pennarello su un manifesto affisso nell’Ateneo riguardante probabilmente e genericamente prigionieri politici comunisti”.

 

Di seguito riportiamo la nota scritta nel carcere di San Vittore da Simone Di Renzo:

E’ così anche per la mia storia. Chi comanda, chi governa, chi guida e amministra la giustizia in questo paese, ha deciso che io e Lollo siamo colpevoli. E le manette scattano automaticamente. Strano sistema questo, che prima ti sbatte in galera e poi si domanda se sei stato tu o meno. E ce ne sono a migliaia di storie come questa dietro queste mura.

Ho dichiarato ciò che avevo da dire al GIP l’altra mattina. Ho spiegato che io non c’entro niente, che questo ragazzo, Federico, non lo conosco e che non avevo idea che quella sera fosse andato via in quella maniera.

Se avessi visto quella scritta sul manifesto sarei andato a parlare con Federico e gli avrei spiegato che il suo era stato un gesto poco rispettoso nei confronti di chi si è fatto giorni, mesi, anni di carcere per le proprie idee. Gli avrei detto che avrebbe potuto scrivere da un’altra parte, ma mai mi sarei immaginato di prenderlo a botte. Che ragioni avrei avuto?

Ogni giorno vado in università e non ci vado solo per studiare. Peggiorano le condizioni di noi studenti e penso perciò che sia giusto opporsi a questo, lottare per ciò che ci spetta, per soddisfare i nostri bisogni e far valere i nostri diritti. Io, con gli altri studenti come me, ci parlo, mica alzo le mani su di loro.

Vedendo le firme dei provvedimenti, di chi mi è venuto a prendere a casa (la DIGOS!), dei signori P.M. che hanno deciso di arrestarmi (e sapendo che fanno parte del pool dell’antiterrorismo) mi sorge allora spontanea una domanda: cosa si sta processando in questo caso? Ciò che è successo quella sera o la nostra attività politica, le nostre idee? Di cosa hanno paura questi magistrati, che noi studenti e lavoratori veramente ci mobilitiamo per riprenderci ciò che è nostro, ciò che le riforme degli ultimi vent’anni ci hanno levato?

Ecco spiegato il nesso con l’accusa contro la Ex-Cuem, contro i collettivi, contro i centri sociali. Contro chi ogni giorno, a scuola, in università, sul posto di lavoro o nei propri quartieri, cerca di lottare per migliorare le condizioni di tutti e tutte.

Se questo è un attacco contro chi si mobilita e si autorganizza questo è un attacco repressivo contro chi mette in discussione questo sistema di cose. Questo, a me sembra fascismo. E i partigiani mi hanno insegnato che i fascisti si cacciano via. E Federico non mi è sembrato un fascista”.

 

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