Intervista alla senatrice Elena Cattaneo: “Denunciare ogni condotta che tradisce l’etica e la dignità accademica”

“Mi rendo conto che può non essere facile, ma finché non scatterà in ognuno di noi la molla per contribuire al cambiamento, ne usciremo tutti sconfitti, compreso chi penserà di averla fatta franca, di aver vinto”, afferma la senatrice e prof.ssa ordinaria di Farmacologia all’Università degli Studi di Milano, che racconta un suo episodio personale

La ricercatrice e senatrice a vita, Elena Cattaneo, in un’intervista esclusiva rilasciata a Corriereuniv.it in occasione dell’annuale edizione delle guide di orientamento per gli studenti alla scelta della formazione post maturità.

Senatrice Cattaneo, a breve oltre cinquecentomila studenti saranno alle prese con l’esame di maturità. Molti sono ancora indecisi sul continuare o meno gli studi, lei cosa sente di dirgli?

Credo che lo studio sia un importantissimo motore di emancipazione per tutti noi, attraverso il quale apprendiamo una serie di conoscenze e competenze utili ad ampliare i nostri orizzonti culturali, ma soprattutto sviluppiamo lo spirito critico che ci permette di essere cittadini più maturi, partecipando alla vita della società con maggiore consapevolezza. In ogni caso, è essenziale che nelle scelte individuali, ogni studente sia guidato, oltre che da una valutazione delle prospettive professionali, dalle proprie passioni (se già emerse), aspirazioni e capacità, piuttosto che da modelli culturali o aspettative esterne. Uno studio sorretto da un interesse sarà incommensurabilmente più efficace di un tentativo svogliato in qualcosa verso cui non si ha alcuna predilezione. Un consiglio però mi sento di darlo: una volta individuato quel che vi piace, puntate in alto, datevi obiettivi concreti e ambiziosi. Aver chiara la meta renderà più facile superare le difficoltà che sarà naturale incontrare lungo il percorso. 

Lei è laureata in Farmacia, cosa ha acceso la sua motivazione verso questa scelta, verso questo percorso?

A indirizzarmi verso la laurea in Farmacia dopo il liceo, in realtà, era stata soprattutto la possibilità di trovare buoni sbocchi professionali, ma è stata l’opportunità di svolgere la mia tesi sperimentale presso un’azienda farmaceutica che ha acceso in me la passione per la ricerca. Ricordo che ci volevano ore, spesso una notte intera, prima di poter vedere stampati i risultati dei miei esperimenti da un grande plotter, su fogli enormi. Ogni mattina entrando in laboratorio correvo – letteralmente! – a controllare quei numeri stampati: se si ripetevano uguali a sei a sei, voleva dire che il giorno prima avevo lavorato bene e che quindi potevo proseguire su quella strada. Resterò sempre molto grata al professor Rodolfo Paoletti (grande farmacologo e direttore per molti anni del Dipartimento di Scienze Farmacologiche dell’Università di Milano, purtroppo mancato nel giugno del 2021) per avermi spronato e indirizzato alla ricerca anche quando ero tentata di percorrere altre vie.

Crede ci siano delle caratteristiche e delle conoscenze di base indispensabili per gli studi scientifici o sono aperti a chiunque, indipendentemente dalla scuola secondaria alle spalle?

Credo che la scienza sia prima di tutto un metodo, che si applica a tutti i campi del sapere, e che ci insegna a studiare, sperimentare, confrontare, a procedere per prove ed errori. In questo senso, la scienza è una strada aperta a chiunque abbia voglia di studiare e sia disposto a mettere in discussione in ogni momento le sue idee. Il punto di partenza è sempre un’idea, una domanda che ci appassiona e in qualche modo ci ossessiona; poi bisogna identificare tutti gli esperimenti immaginabili per verificarne la validità, che possono richiedere anche anni; se l’idea regge a tutti i tentativi di falsificazione, si raccolgono i dati e si rendono pubblici, visibili, quindi ripetibili, per essere scrutinati da milioni di occhi e menti in tutto il mondo che sanciranno o distruggeranno, attraverso esperimenti successivi e indipendenti, la validità di ogni scoperta. Quando, nel nostro percorso, siamo guidati dalla volontà di trovare la risposta a una domanda che ci appassiona, affrontiamo più volentieri lo studio, le difficoltà e la fatica necessari per arrivare a scoprire quel “pezzettino” di conoscenza.

In Italia pochi ragazzi scelgono le materie scientifiche, le cosiddette Stem, si è spiegata la ragione, e cosa potremmo fare per incentivare nel Paese questi studi?

In Italia esiste dai tempi di Croce e Gentile un orientamento che esalta la formazione umanistica sminuendo il peso culturale della scienza e i suoi valori etici. Io credo però che questa dicotomia abbia poco senso, così come avrebbe poco senso quella opposta. Cultura scientifica e umanistica sono entrambe importanti per una società della conoscenza: lo studio va incentivato in tutti i campi del sapere, in modo che ogni giovane possa individuare la propria ‘vocazione’ tra tante strade possibili e non si senta costretto a scegliere quella che viene presentata a priori come la migliore. Per far conoscere ai giovani un mondo spesso poco familiare, com’è quello della ricerca e del laboratorio, con il centro Unistem dell’Università statale di Milano abbiamo fatto nascere, ormai 14 anni fa, l’Unistem Day, una giornata di divulgazione scientifica in cui studenti e studentesse degli ultimi anni di scuola secondaria superiore possono entrare a contatto con la realtà universitaria nell’ambito delle materie Stem. L’ultima edizione, la numero 11, è stata nel 2019 e ha coinvolto complessivamente 30.000 ragazzi, ospitati in 99 Università e Istituti di ricerca nel mondo; speriamo l’anno prossimo di poter riprendere, dopo lo stop forzato degli ultimi tre anni a causa della pandemia da Covid-19.

Molti giovani hanno nel cassetto il sogno della carriera universitaria, ma la realtà, la cronaca, anche di questi giorni, racconta di sistemi chiusi, basati su familismo e “comitati” di interessi. Come ridare speranza e fiducia ai nostri ragazzi?

Le cronache di cui parla fanno parte purtroppo del sistema universitario italiano, ma mostrano solo una faccia della medaglia. L’altra rispecchia una realtà sana e fertile. L’Italia è infatti patria di talenti ed eccellenze riconosciute in tutto il mondo; la formazione dei nostri laureati è competitiva a livello internazionale, quando non addirittura invidiata. Conosco solo un modo per far sì che questa parte “sana” emerga fino a soppiantare la metà “malata” del sistema: denunciare ogni condotta che tradisce l’etica e la dignità accademica. Mi rendo conto che può non essere facile, ma finché non scatterà in ognuno di noi la molla per contribuire al cambiamento, ne usciremo tutti sconfitti, compreso chi penserà di averla fatta franca, di aver vinto. È capitato anche a me, da “semplice” ricercatrice, di denunciare ingiustizie, spartizioni di posti o di fondi pubblici, bandi scritti per favorire alcuni ricercatori a svantaggio di altri. Non sempre è andata come avrei voluto, ma aver tenuto il punto una volta mi ha dato forza e motivazione per combattere in quella successiva. Per questo mi sento di chiedere una cosa ai nostri ragazzi che, nati in questa parte fortunata del mondo, possono godere di diritti che altri prima di noi hanno conquistato e che, sbagliando, diamo ormai per scontati: restate impermeabili alle scorciatoie e ai compromessi e impegnatevi per difendere, ogni giorno, il valore della libertà e della competizione.

In Italia abbiamo oltre 3 milioni di Neet, ragazzi che non studiano, non lavorano e non si formano. Un fenomeno odioso a cui i vari Governi non hanno mai dato risposte concrete. Cosa suggerirebbe ad un giovanissimo alle prese con il proprio progetto di vita, per non incorrere nelle stesse difficoltà?

Di imparare ad ascoltare la voce della curiosità verso il mondo circostante che tutti abbiamo dentro di noi (altrimenti la nostra specie non si sarebbe mai evoluta); di capire in che direzione va quella curiosità e di assecondarla, per quanto possibile, cercando di accrescere sempre di più il proprio bagaglio di conoscenze e competenze. Mi riferisco non solo e non tanto all’istruzione di tipo formale, ma anche agli interessi che ciascuno può nutrire verso quel che ci circonda. Impegnarsi in qualcosa, qualunque essa sia, vuol dire mettersi in gioco. Con la consapevolezza che solo accettando la fatica e la responsabilità di avere un ruolo attivo nella società possiamo acquisire la forza e gli strumenti per cambiarne quegli aspetti che non ci piacciono e per migliorare le condizioni di vita nostre e altrui.

Mariano Berriola

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