Con un deficit di 800mila risorse con competenze tecnologiche e un mondo professionale sempre più “digital”, muoversi verso l’innovazione significa soprattutto operare un cambio culturale. Una missione in cui le aziende sono protagoniste: l’esempio di VMware per rendere gli studenti tech-friendly.
Lo sapevamo, certo. Ma adesso ci sono anche i dati a confermarlo: l’università fa bene all’occupazione, allo sviluppo del territorio, e anche alle imprese. È quanto emerge da una ricerca di Forum PA in collaborazione con VMware Italia e CRUI, l’Associazione delle università italiane, che racconta come la presenza universitaria e l’innovazione produttiva siano nel nostro paese strettamente correlate fra loro, in particolare in termini di sviluppo economico territoriale, diffusione dell’innovazione e competitività delle attività produttive.
Lì dove c’è un ateneo, infatti, c’è statisticamente più lavoro (nelle 10 province del Nord con alta presenza universitaria il tasso di occupazione è del 67,2%), si realizza un maggior valore aggiunto pro-capite, ed anche una maggiore diffusione delle attività produttive cosiddette “ad alto contenuto di conoscenza” (ovvero i servizi di informazione e comunicazione e le attività di ricerca scientifica e di sviluppo) e “ad alta intensità tecnologica” (cioè le imprese che operano in settori relativi a elettronica, aeromobili e così via). Anche la concentrazione di startup è più alta nei territori dove l’università è presente. E se questo è vero a maggior ragione al Nord e nei centri dove storicamente la presenza di uno o più atenei raccolgono grande partecipazione (come ad esempio Pisa, con ben 10 iscritti all’università ogni 100 abitanti), questi trend si riscontrano lungo tutta la penisola. A dimostrazione che il ruolo delle università non è più «limitato alla sua componente primaria, la qualificazione del capitale umano, ma si estende ad altri ambiti contribuendo ad alimentare la nascita e lo sviluppo di esperienze imprenditoriali innovative», sottolinea la ricerca.
Risultati che ben raccontano quanto l’aumento del numero di laureati sia una necessità per il nostro Paese (l’Italia è ancora fanalino di coda nell’area Ocse per numero di laureati, appena il 18% sul totale della popolazione), ma che dicono molto anche dell’altra grande sfida che l’Italia deve affrontare, la digitalizzazione. Infatti, dalla ricerca emerge come «la variabile più influenzata dalla presenza dell’università è la fertilità innovativa», spiega a Linkiesta Daniele Fichera, Senior Consultant di Forum PA. «In particolare, la presenza dell’università in un territorio si associa positivamente alla presenza di nuove esperienze imprenditoriali caratterizzate da innovatività, ovvero aziende che non riguardano necessariamente prodotti digitali, ma che richiedono competenze digitali nei loro processi».
Da tempo le imprese hanno iniziato a entrare sempre più dentro le aule universitarie per fare formazione, nel tentativo di accelerare il processo di acquisizione di questi tipi di competenze da parte dei giovani
Ad oggi, gli studenti iscritti ai corsi in area STEM (Science, Technology, Engineering and Mathematics) rappresentano quasi il 30% del totale degli iscritti, mentre l’offerta di corsi STEM rappresenta il 37% del totale dei corsi disponibili in Italia. Una tendenza in crescita negli ultimi anni, ma comunque bisognosa di essere nutrita e, per una certa misura, ripensata: basti pensare al numero di aziende che ricercano profili scientifico-tecnologici da inserire nel proprio organico, alla nota scarsità di queste professionalità (tra i profili più ricercati esperti di cybersecurity, blockchain, user experience), e anche alla frequente necessità per le aziende di formare direttamente al proprio interno i neoassunti, posto che spesso e volentieri la formazione universitaria non arriva a fornire tutte le competenze necessarie a performare i ruoli che oggi servono nel mercato del lavoro. Il tasso di evoluzione delle tecnologie, infatti, richiede un aggiornamento continuo, al quale spesso l’università non riesce a stare al passo nell’elaborazione dei programmi universitari.
È proprio per sopperire a queste mancanze che da tempo le imprese hanno iniziato a entrare sempre più dentro le aule universitarie per fare formazione, nel tentativo di accelerare il processo di acquisizione di questi tipi di competenze da parte dei giovani. Uno di questi è il progetto “Orizzonte digitale” di VMware, azienda leader nello sviluppo di software aziendali: a partire dal 2020, i suoi esperti terranno incontri formativi, seminari e lezioni didattiche presso gli atenei, trasmettendo il proprio know-how in ambiti come il Cloud, il Networking e la Sicurezza e il Digital Workspace. Il progetto prenderà il via nelle università di Pisa, la Federico II di Napoli e Milano-Bicocca, formando circa 1000 studenti all’anno, e poi si sposterà anche in altri atenei, soprattutto al Sud, e in generale lì dove l’innovazione stenta ad arrivare, sia a livello universitario che aziendale.
«Orizzonte digitale si pone l’obiettivo di aiutare a colmare il gap digitale nel percorso di trasformazione del paese», spiega Raffaele Gigantino, Country Manager di VMware Italia a Linkiesta. «Intendiamo aiutare i giovani di qualsiasi estrazione universitaria ad accrescere la propria cultura digitale, a prescindere dal proprio posto di lavoro». Il progetto, infatti, non si focalizza soltanto sui laureandi in materie informatiche e simili, ma punta a promuovere una cultura digitale tra i giovani di qualsiasi facoltà. «Gli ultimi studi della commissione UE, infatti, dicono che già entro il 2020 il 90% delle professioni non ICT richiederà competenze digitali. Già oggi l’Italia soffre di un deficit di 800.000 risorse con competenze tecnologiche», spiega Gigantino. «Il digitale ormai è praticamente una soft skill», incalza Fichera, «al pari delle capacità di comunicazione e di lavoro in team. Tant’è che nelle startup le competenze digitali sono necessarie indipendentemente dall’ambito di attività».
Se le aziende innovative esprimono al meglio la necessità di combinare competenze digitali con quelle di altro tipo, più in generale qualsiasi ambito di lavoro ormai richiede un qualche genere di competenza digitale: «Dall’architetto all’avvocato, la maggior parte dei professionisti oggi si trovano a usare strumenti di questo tipo. Per questo la competenza digitale è trasversale e sempre più universalmente necessaria», spiega ancora Fichera. Ai tempi di una generale scarsità di risorse pubbliche e di una scarsa lungimiranza da parte delle forze politiche nell’investire in questo senso, fondamentale è quindi l’apporto delle aziende all’interno dell’università, per contribuire a formare quella forza lavoro di cui esse stesse potranno avvalersi in futuro, ma anche nella generale promozione di una cultura dell’innovazione pervasiva e omogenea per tutti i ragazzi. «Le competenze tecnologiche sono ormai fondamentali per trovare lavoro e per accelerare la transizione», puntualizza Gigantino.
Ça va sans dire, questo tipo di azioni, infine, non potrà che avere un impatto positivo anche sul tessuto imprenditoriale (è la stessa ricerca a sottolinearlo): «Oggi le barriere di ingresso alla tecnologia si sono abbassate. Prima l’innovazione era appannaggio delle grandi imprese, che potevano permettersela grazie a investimentiIl importanti. Oggi, invece, il cloud è molto più democratico e offre la possibilità di innovare anche con modelli di business semplici. Ma per farlo c’è bisogno delle competenze», puntualizza Gigantino. «Secondo l’Istat, nel 2018 le imprese che lavoravano col cloud erano il 20%, da qui la necessità di creare una cultura digitale diffusa, diretta alla classe dirigente così come agli studenti», conclude Fichera. I ragazzi aprano bene le orecchie, dunque, perché la strada è ormai tracciata: «imparare la tecnologia sarà sempre più come imparare l’inglese».
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