È l’orientamento, bellezza

Prima di diventare cacciatori “di lavoro” ed entrare nel girone infernale dei laureati alla ricerca di un’occupazione bisogna fare i conti con la facoltà da scegliere, il 3+2 da conseguire e la specializzazione da intraprendere. Una strada intrecciata da liane di dubbi e numeri dove a volte il sesto senso non basta. Nasce così l’orientamento: una bussola sicura per essere guidati verso la scuola, l’università e il lavoro.

E… adesso? Eccolo lì: è uno studente. Ha appena corso per le scale del suo liceo. Ha i tristi occhi soddisfatti di chi sa d’aver finito un ciclo. Ha appena visto il suo voto. Più alto di quanto si aspettasse. È contento, lo studente. Perché è maturo. Esce dal portone di quella che era la sua scuola. E il mondo gli sbatte sul viso la domanda: “E… adesso?”.
È un patatrack. Rotto l’argine della sua leggerezza, fluisce un fiume in piena di altre patologiche questioni: “Vai a lavorare dallo zio?”. Solitamente, no (anche perché gli zii che offrono lavoro sono una razza in via piuttosto inoltrata d’estinzione), quindi: “Università?”, ok, e poi: “La facoltà?”, “L’indirizzo?”, “In quale città?”, “E dopo la laurea triennale?”, no, non dirmi che: “Devo fare anche la specialistica?”, quindi, “Altri cinque anni??”, e poi: “Cosa fanno i miei amici?”, perché no, non li voglio perdere, e poi m’attanaglia il dubbio: ma io “Resterò con la mia ragazza anche se facciamo facoltà diverse?”, e, visto che ne stiamo parlando, “Ma io cosa voglio fare da grande?”.
In pratica, è appena uscito da un grigio girone infernale, e si ritrova schiaffeggiato da un nugolo di scelte. Come gli capiterà tra 3, forse 5, probabilmente 7, addirittura 9 anni, quando, con un pezzo bollato di carta in mano e la qualifica di “dottore” sulle spalle, dovrà avventurarsi a tentoni in mezzo a contratti-capestro, centri per l’impiego, stage non retribuiti, speranze, avvilimento dei suoi sogni, futuro. È l’orientamento, bellezza. Che non è il sesto senso che non ti fa chiedere indicazioni per strada. È una giungla. Intrecciata da liane di numeri .
Se ho il 3 devo prendere anche il 2? – Eccoli lì, i numeri. Vediamo cosa rispondono ad una domanda essenziale per il compimento della “rivoluzione” del 3+2: basta il 3, o serve anche il 2? I dati raccolti nella seconda parte dell’ultima edizione del rapporto “Università e lavoro: orientarsi sulla statistica” dell’ISTAT sono piuttosto contrastanti. Le due categorie (i laureati triennali e quelli di laurea “lunga”, cioè una laurea vecchio ordinamento o una specialistica del nuovo) si sorpassano a vicenda a seconda della tipologia di campione osservata. Cioè: al momento del conseguimento del titolo lavorano il 30.2% dei laureati “lunghi” e oltre il 37% dei laureati triennali; passa un anno, e c’è il sorpasso: gli occupati tra i laureati ai corsi lunghi sono il 56.9%, quelli “triennali” al 52.2%. Su questi dati, però, c’è da fare una grossa tara.
I livelli occupazionali più contenuti dei dottori di primo livello, infatti, sono in larga parte da imputare alla prosecuzione degli studi nel biennio specialistico. La differenza tra i due diversi curricula si vede, invece, nel tipo di lavoro svolto. I “lunghi”, infatti, hanno maggiori possibilità di lavorare con un contratto accettabile, visto che il 56.1% di loro (contro il 48.5% dei triennali) svolge ad un anno dal conseguimento del titolo una mansione regolata da tempo indeterminato o determinato ben specificato. Vediamo di capirci qualcosa in più. Per farlo, scorriamo il rapporto ISTAT fino a quando, a pagina 10 della seconda parte, non ci si imbatte in questo titoletto: “Come si spiegano le differenze di occupazione per le due tipologie di lauree?”. Oro che cola.
In questo paragrafetto, infatti, si scopre che “nel 2007 il più basso livello di disoccupazione a tre anni dalla laurea si registra per coloro che hanno concluso un corso triennale di formazione nelle professioni sanitarie: appena l’1.9%”. Wow: quindi, tutti a scienze infermieristiche? No, perché questo dato affascinante è “dovuto prevalentemente alla massiccia presenza di laureati che lavoravano nel settore già prima di conseguire il titolo”. Allora non vale. E questa considerazione spiega anche il dato del livello di disoccupazione a tre anni, che è del 14.2% per i triennali e del 16.2% per i “lunghi”: in pratica, in tanti si prendono il pezzo di carta (quindi, la triennale che basta e avanza) per certificare occupazioni già consolidate. Infatti, se si scorpora il dato generale nei quindici gruppi di competenze che l’ISTAT individua, la situazione occupazionale per i laureati triennali è peggiore rispetto ai loro colleghi specializzati in 2 casi su 3.
E la disoccupazione di modestissima entità rilevata per chi ha concluso corsi triennali di classe medica (seguiti in larghissima maggioranza da donne) condiziona anche “le differenze dei tassi in un’ottica di genere: le laureate nei corsi triennali si trovano in una situazione migliore rispetto a quante hanno concluso nel 2004 una laurea di 4-6 anni (con tassi di disoccupazione rispettivamente del 15.4% e del 19.3%), a differenza degli uomini (12.7% contro 11.8%).
Dopo cotanto studio, sono soddisfatto del lavoro? Ok: ho studiato. Ho confezionato il mio curriculum e l’ho arricchito anno per anno. Adesso, lavoro. E ne sono soddisfatto? Mica tanto… “Il lavoro che si riesce ad ottenere con un titolo di studio elevato” recita sempre il rapporto ISTAT “non sempre corrisponde al percorso formativo intrapreso”. La coerenza tra la mansione svolta e lavoro, infatti, è del 69% per i laureati lunghi e del 68.5% di quelli triennali. Come si vede, in questo aspetto la tipologia di corso di studio c’entra poco. C’entra eccome, invece, l’area di competenza.
“Sono – infatti – i giovani in uscita dai corsi lunghi del gruppo ingegneria (83%) ma soprattutto chimico-farmaceutico (94%) e medico (quasi 100%) a vedere un maggiore riconoscimento del proprio titolo di studio”. Fuori da quei campi, è un’ecatombe. Sono infatti oltre 6 laureati triennali su 10 del gruppo giuridico e letterario a trovare lavori nei quali la loro laurea non serve. E la regola vale anche per i “lunghi”: i laureati dei gruppi politico-sociale (53.5%), linguistico (44.4%) e psicologico (41.7%) sono impegnati in attività che non hanno richiesto la laurea come titolo di accesso. Insomma: hanno studiato per cultura personale. Che ben venga!, ma magari s’aspettavano qualcosa in più…
Occhio al green – E’ quest’ultima una tendenza che, forse, è sul punto di invertire la rotta. Se è vero (come è vero) che se non ci sbrighiamo a convertire la nostra black-carbon economy in green economy ben presto il pianeta si scoccerà di noi, allora è doveroso dare un’occhiata a cosa succede nel campo dell’economia compatibile. Lo ha fatto l’ISFOL che, in un’indagine pubblicata ad inizio del 2010 con dati 2008, ha fotografato una situazione endemicamente dinamica. Appena un anno dopo il completamento di un master in formazione ambientale, infatti, l’80.6% degli intervistati è stabilmente occupato. Di cui una bella fetta non ha dovuto attendere più di sei mesi dal conseguimento del titolo. E non stiamo parlando di una nicchia ridotta. Il numero degli occupati nel settore ambientale è salito del 41% dal 1993 al 2008, anno in cui ha toccato le 372.100 unità (come dire, diverse FIAT messe in fila…). Non solo: è questo un campo in cui le differenze di genere vengono appiattite. Il 61.7% delle donne, contro l’appena 32.2% degli uomini, impegnate nella green economy occupa posizioni di livello medio-alto. C’era da aspettarselo, visto che l’87% della forza lavoro rosa nell’economia verde ha livelli di scolarità medio-alti, contro appena il 54.6% dei loro colleghi maschi. Quindi: ad oggi, laurearsi è un investimento con tanti rischi. Ma domani, se non ci saremo estinti ingurgitando ancora petrolio, potrebbe non essere più così…
Simone Ballocci

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