Classifica Censis, Udu: “Sud discriminato dai finanziamenti perde studenti e docenti”

“La discriminazione che pone gli Atenei su piani diversi (quelli di serie A e quelli di serie B) contribuisce ad un sistema che non tutela e non garantisce il reale accesso al diritto allo studio”

La pubblicazione dell’annuale classifica Censis degli atenei italiani evidenzia la differenza di status tra atenei del Sud e del Nord. Per l’associazione studentesca Unione degli Universitari: “Il rapporto fa emergere come la diminuzione di immatricolazioni, pari al 2,8%, si concentra in buona parte negli atenei del Sud (4900 student3 in meno rispetto al precedente anno accademico) che, storicamente, non solo sono tra gli ultimi classificati, ma tra i più penalizzati da un sistema di attribuzione delle risorse (FFO) punitivo, che verte sull’attribuzione di quote premiali e su un sistema di valutazione che prende in esame fattori prettamente quantitativi”.

Pochi fondi al Sud

Per il sindacato studentesco la penalizzazione dei fondi erogati dal ministero e facente parte delle risorse che via via il governo di turno tende ad aumentare o diminuire in base al colore politico, riguarda anche un segno meno per quanto riguarda docenti e corsi di studio, le cui risorse hanno favorito gli atenei del Nord. “Il risultato è quindi una cristallizzazione delle disuguaglianze territoriali e quindi delle prospettive offerte a chi, questi territori, li vive. È per questo che, nelle classifiche redatte, sono pochissimi (solo due, Calabria e Sassari rispettivamente per Atenei di grandi e medie dimensioni) le Università citate nelle prime posizioni, condizionando la scelta delle studentesse e degli studenti, acuendo l’effetto della migrazione studentesca verso altre regioni”.

Con una dispersione scolastica peggiorata in epoca di pandemia, con un Sud in cui in media uno studente su tre abbandona gli studi prima della scuola dell’obbligo, trovare studenti disposti a studiare fino ai 24-25 anni è sempre più difficile al Sud. Con tutte le gravi conseguenze che questo compete se si pensa che ogni anno 134 mila laureati, soprattutto under 30, abbandonano il Meridione (dati Istat, Uninpresa e Miur). “L’impoverimento delle famiglie a seguito della crisi economica – spiegano gli studenti dell’Udu – e la mancanza di una copertura omogenea di sussidi al diritto allo studio e di alcuni accorgimenti adottati nel corso della fase pandemica, ha influito negativamente sulle nuove iscrizioni dell’anno accademico appena concluso. E tra le conseguenze più impattanti della pandemia, è da annoverare l’acuirsi di un disagio psicologico già caratterizzante il nostro spettro generazionale: non solo l’incertezza relativa alle prospettive future, ma anche il peso di una continua performatività e competitività (che tra l’altro favorisce ben precise aree disciplinari) che ha inizio tra i banchi di scuola, prosegue per il percorso universitario sino all’ingresso in un mercato del lavoro precario e flessibile, hanno contribuito ad alimentare una visione distorta del percorso universitario e non volto alla crescita personale, culturale e sociale delle soggettività”.

“Graduatorie di merito”

Studenti contro le cosidette “graduatorie di merito” per la distribuzione delle risorse entrate in vigore con la legge Gelmini del 2010. “Le Università da sempre più avvantaggiate (per collocazione geografica, storicità, scelte politiche, finanziamenti ricevuti e condizioni al contorno favorevoli) continuano a dominare le classifiche che ogni anno condizionano la scelta di migliaia di neodiplomate/i e non. Siamo convinte/i che non possa essere una graduatoria di merito, che si configura essere uno strumento limitato giacché non racconta l’altra faccia della medaglia, ovvero quella di un sistema sottofinanziato, ad indicare quale università o corso di laurea sia più adatto per uno studente/studentessa”. Insomma ci si lamenta che non vi è crescita economica ma si sottofiananziano per scelta quelle generazioni che della crescita economica dovrebbero essere le protagoniste. “La discriminazione che pone gli Atenei su piani diversi (quelli di serie A e quelli di serie B) contribuisce ad un sistema che non tutela e non garantisce il reale accesso al diritto allo studio. E finché non avverrà un cambio di paradigma e concezione del sistema universitario, non solo l’Italia continuerà a detenere il primato per più basso numero di immatricolat3, laureat3 e occupazione giovanile, ma non ci sarà crescita economica e sociale per il paese”.

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