Boom di aziende create dagli atenei italiani. Ma il gap con l'estero è ancora grande

Le università italiane si sono messe a fare impresa, soprattutto in campo scientifico. Secondo gli ultimi dati aggiornati da Netval citati da Corrado Zunino su Repubblica – l’associazione delle Università e degli Enti pubblici italiani impegnati nella valorizzazione dei risultati della ricerca -, il numero delle piccole imprese nate tra le mura degli atenei italiani è pari a 1.384. E hanno un elevato tasso di sopravvivenza: l’86 per cento. Ca’ Foscari di Venezia, ad esempio, ha messo quote proprie in nuove aziende di chimica fine e in altre per videointerpreti. L’Ateneo di Foggia nell’agroalimentare. Bicocca di Milano ha creato un ramo d’università per ricompensare un’attività impegnativa, e non retribuita, come quella dei peer review (revisori degli articoli scientifici). Senza contare le varie fondazioni universitarie che nascono ogni anno per fare business. 
Nel 2010 erano oltre cento l’anno le aziende create dagli atenei. Nel 2014, poi, il picco di 135 nuove aziende specializzate in un anno; successivamente le start up universitarie sono lievemente calate. Secondo i dati Netval  il maggior numero di aziende create è del Consiglio nazionale delle ricerche (75). Poi viene il Politecnico di Torino con 74 e, con qualche sorpresa, un’università non grande come quella di Genova: è la terza per numeri, 51 spin off portati a compimento. Ancora, l’Università di Padova e la Scuola superiore Sant’Anna (48), Firenze (43), Pisa e Roma Tor Vergata (42), il Politecnico di Milano (41). La Statale di Milano ha incubato, ad oggi, 22 nuove aziende. La Sapienza di Roma, a dispetto delle sue dimensioni, soltanto 19. In fondo al gruppo delle sessantanove università considerate c’è lo Iuav di Venezia – architettura e design – con un solo spin off realizzato. Nel corso del 2016 sono stati ventotto gli atenei che non hanno registrato la costituzione di nessuna nuova realtà.
IL NORD ANCORA PRIMO
Il 47,3 per cento delle imprese d’ateneo identificate è localizzato nel Nord Italia, con un’età media pari a 7 anni di attività – lievemente più elevata nel Nord-Est rispetto al Nord-Ovest. Il Centro, invece, ospita il 29 per cento delle strutture (la cui età media è pari a 6,7 anni) mentre alla parte meridionale e insulare del Paese appartiene il residuo 23,7 per cento (con un’età media di 6,2 anni). Gli atenei e i centri di ricerca pubblici di Toscana, Lombardia e Piemonte offrono la maggiore concentrazione di nuove realtà scientifico-industriali legata all’accademia.
Un quarto delle imprese (il 22,1 per cento) opera nel campo delle Tecnologie dell’informazione e della comunicazione (Itc), ma il peso del settore è progressivamente diminuito e sono cresciute le strutture impegnate nei comparti dei servizi per l’innovazione: attualmente è il primo settore rappresentato con un’incidenza del 26,4 per cento sul totale. Seguono energia e ambiente (16,7 per cento) e Life sciences (15,3 per cento).
Le università italiane – secondo il XIV rapporto Netval – si stanno orientando con convinzione verso il coinvolgimento di studenti (tesisti in particolare) e PhD e programmano il loro ingresso in progetti di ricerca e una partecipazione a percorsi di formazione sull’imprenditorialità. Sono diversi gli atenei che organizzano iniziative di promozione della cultura di impresa per valorizzare il potenziale degli studenti talentuosi.
CRESCONO I BREVETTI
Le università italiane e i centri di ricerca pubblici aumentano, per quanto sia possibile con le recenti manovre, gli investimenti sugli Uffici di trasferimento tecnologico: saliti a 280. Sono 56 gli atenei con uno staff che si occupa di brevetti, licenze e spin off: insieme detengono 3.917 brevetti, di cui 278 realizzati nel 2017. Tutti i parametri del trasferimento tecnologico migliorano. Il numero medio di addetti per università è passato da 3,8 a 4,2 dal 2015 al 2016. L’intero sistema spende 8 milioni di euro per questi uffici ponte tra il mondo della ricerca e il mercato. In media ogni università investe 240 mila euro per la protezione della proprietà intellettuale, contro i 53 mila dell’anno precedente.
I passi in avanti ci sono, ma ancora non reggono il confronto con l’estero. Soltanto l’Imperial College di Londra, per fare un esempio, ha dato vita all’Imperial Innovations, società che ha gestito più di 250 brevetti negli ultimi anni con un investimento corrente di 250 milioni di sterline. Cambridge, Oxford e University College hanno seguito l’esempio.

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