Quando la scuola diventa ghetto fallisce nella sua missione

Tutte le scuole italiane fanno i conti ogni giorno con la terribile questione delle disuguaglianze che manifestano i propri effetti drammatici sin dall’infanzia: la scuola è il luogo in cui le tensioni, le paure, l’assillo dei bisogni si scaricano in modo più immediato e forte. Perché il disagio delle famiglie e dei territori arriva qui attraverso bambini e ragazzi, attraverso le loro difficoltà materiali e non, attraverso le situazioni di privazione e di povertà che diventano divari nell’apprendimento e nel cosiddetto successo formativo. Se nella seconda metà del ’900 la scuola accorciava le distanze consentendo a tutti di accedere a nozioni prima disponibili solo a pochi, oggi dare a tutti pari opportunità significa anzitutto fare i conti con gli strumenti di lettura della realtà che derivano però anch’essi – paradossalmente ancora di più dell’accesso alle informazioni – dalla situazione familiare e sociale nella quale bambini e bambine, ragazzi e ragazze si trovano inseriti.
Ecco perché diventa fondamentale far sì che gli istituti scolastici siano luoghi di incontro e di scambio nei quali trovi spazio la rappresentazione complessa della società. Se una scuola diventa ghetto, ha già fallito nella sua missione centrale che è oggi, appunto, dare agli studenti gli strumenti della cittadinanza consapevole e responsabile. In un tempo in cui le informazioni sono disponibili a tutti, immediatamente, in grande quantità, la scuola ha un ruolo molto diverso da quello che ha svolto straordinariamente nel secolo scorso: non distribuire nozioni ma insegnare a distinguere, utilizzare, creare, imparare. In poche parole il sistema di istruzione oggi più che mai deve e-ducare più che insegnare, tirare fuori (e-ducere) i suoi studenti dalla situazione di ignoranza, di povertà, di disagio e coltivarne i talenti individuali perché tutti trovino il proprio spazio nella comunità.
Come possono un bambino o una bambina possedere questi strumenti di cittadinanza se viene loro negato il diritto di entrare in contatto con coetanei che provengono da situazioni molto distanti dalla propria? Basterebbe questa lettura del problema a spiegare perché quel che si legge (o, meglio, si leggeva perché la pagina adesso è stata modificata) nella descrizione dell’Istituto Comprensivo di Via Trionfale è oltre che folle e profondamente sbagliato, anche assolutamente contrario alla missione educativa della scuola.
Cito testualmente: “la sede di Via Trionfale e il plesso di via Taverna accolgono alunni appartenenti a famiglie del ceto medio-alto mentre il plesso di Via Assarotti (…) accoglie alunni di estrazione sociale medio-bassa e conta tra gli iscritti il maggior numero di alunni con cittadinanza non italiana; il plesso di Via Vallombrosa, sulla via Cortina d’Ampezzo accoglie invece prevalentemente alunni appartenenti a famiglie dell’alta borghesia assieme ai figli dei lavoratori dipendenti occupati presso queste famiglie (colf, badanti, autisti e simili)”.
In sostanza, attraverso quella descrizione sembra che si invitino i genitori a scegliere la scuola per i propri figli sulla base della classe sociale di appartenenza, o che addirittura sia la stessa scuola a evitare con cura di far mescolare tra loro persone di diversa provenienza (la precisazione sui figli delle colf suona come un alert: “attenzione, lì potreste trovare classi inferiori!”). La scuola diventa, appunto, ghetto. E che sia ghetto delle élite o dei poveri in questo caso non fa differenza: è il ruolo che la Costituzione assegna all’istruzione a essere totalmente stravolto. Non a caso, proprio in virtù della nostra Costituzione, le indicazioni operative del Ministero prescrivono che le classi siano composte nel modo più eterogeneo possibile. Se vale per le classi, figuriamoci le scuole.
A causa della segnalazione e della presa di posizione di tutti i vertici del Ministero, come dicevo, la pagina è stata modificata. Ma qualcosa di questa vicenda resta e resterà. E ci dice che può addirittura succedere che il luogo che ha rappresentato nella storia del nostro Paese l’ascensore sociale per eccellenza, lo spazio di riduzione delle distanze, la realtà nella quale si rendeva possibile che anche il figlio dell’operaio diventasse dottore, parafrasando la nota canzone, viva una condizione di sofferenza. E che a fronte di una scuola che propone un’offerta simile probabilmente ci sono tante famiglie in cerca di quel tipo di offerta.
Quando mi capita di dire che l’investimento in educazione non può essere una delle priorità del governo, ma è la cornice dell’azione complessiva di un esecutivo che voglia dirsi progressista, lo faccio consapevole della necessità di cogliere il senso della sfida che abbiamo di fronte: restituire alla scuola il suo ruolo nella società. Casi come questo ci dicono che come Paese abbiamo la responsabilità di non aver investito abbastanza in termini economici ma anche culturali sull’educazione. È ora di cambiare verso.
huffingtonpost

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