Una generazione di poveri diavoli in cerca d’autore. Addentrandosi col machete della cronaca nel magico mondo del lavoro “giovane” del ventunesimo secolo sembra di avventurarsi in un caotico mappamondo cubico dove la mansione è un Equatore ad angoli acuti, la retribuzione un oscuro continente ancora da scoprire e il contratto una cartina politica senza confini e nomi degli Stati.
C’è la crisi – “E’ la crisi, bellezza”. Ebbene sì: la crisi internazionale sta falcidiando l’occupazione. E questo è risaputo. Ma che stia distruggendo posti di lavoro soprattutto per chi ha meno di 25 anni, in effetti è un po’ meno noto. Prendiamo l’Europa: nel primo trimestre del 2009 la cifra dei senza-lavoro under-24 ha raggiunto i cinque milioni di unità. Tanto per dare l’idea, è come se prendessimo tutta Milano, le sommassimo tutta Genova e tutta Torino, abbattessimo l’età di questa megalopoli alla post-adolescenza e mandassimo tutti a casa con una bella lettera di licenziamento collettiva.
Il tasso di disoccupazione giovanile, ancora in Europa, è (sempre dati primo trimestre 2009) più che doppio rispetto a quello ufficiale: 18.3 % contro l’8.3%, e si spande ad una velocità ben maggiore. “E’ la crisi, bellezza”. E, in tempi di crisi, i primi a saltare sono i posti di lavoro regolati dai contratti più fragili, liquidi e friabili: quelli atipici. Cioè: quelli sottoscritti dai giovani precari.
Il fenomeno è così ampio e così diffuso che gli analisti economici gli hanno dato anche un nome: “youth crunch” ovvero, letteralmente: stritolamento della gioventù. Un virus di cui l’Italia è un malato terminale. Con una disoccupazione sotto i 24 anni pari al 25%, il nostro paese si colloca in fondo alla classifica degli Stati dell’UE, coabitando in zona retrocessione insieme a Spagna e Lettonia.
Precisazione indispensabile: anche negli altri Paesi i giovani devono spesso arrangiarsi con lavoretti poco remunerati. Ma è solo questione di tempo e pazienza, una pazienza tra l’altro retribuita da ingenti afflussi di capitali pubblici che ammorbidiscono le traversie della ricerca di un primo, vero lavoro in massima parte garantendo formazione e addestramento professionale (la buona e cara “gavetta”, insomma).
Da noi tutto è più complicato. Se non riescono a saltare sul treno fortunato d’un lavoro vecchio stampo, i giovani italiani si ritrovano intrappolati in un limbo interminabile d’insicurezze lascive. Unico ammortizzatore sociale: la famiglia, e nient’altro.
Neet, la malattia del decennio – Prospettive desolanti. Il che, con un tasso d’abbandono scolastico a doppia cifra da decenni, spiega l’immane dimensione di un fenomeno sconfortante: il 22% dei ragazzi italiani tra i 20 e i 24 non studia, non si forma, e nemmeno cerca lavoro. È un inerte. Un ignavo immobile che ha smesso di sperare. Un “neet” (not in education, employment or training). Manco a dirlo, quel 22% ci pone al terzultimo posto in Europa. Stavolta coabitiamo, sempre in profonda zona retrocessione, con Bulgaria e Romania. Facendo le somme: il posto da precari (“E’ la crisi, bellezza”) è il primo a saltare.
L’unico ammortizzatore sociale di cui ci si può ancora fidare sono papà e mammà. L’accesso al mondo del lavoro è un dedalo senza fondo di lavori senza senso. Altro che stritolamento della gioventù: questo è omicidio, di una generazione intera. E la crisi è una semplice complice, non l’assassino.
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