Miss Università: la riflessione delle rettrici sul ruolo delle donne e dell'istruzione

Non si spegne la polemica intorno al concorso Miss Università, l’iniziativa che ha coinvolto lo scorso 6 maggio il Rettore della Sapienza Eugenio Gaudio, in qualità di giudice. A scendere in campo, stavolta, sono le pari ruolo del numero uno dell’Ateneo romano: sei rettrici, hanno controfirmato un testo redatto da Aurelia Sole, a capo dell’Università degli studi della Basilicata, per esprimere il loro parere sulla questione e dare, più in generale, la loro opinione sulle problematiche di genere legate all’istruzione superiore e alla nostra società, ma anche sul ruolo che le università dovrebbero ricoprire in questo fronte.
Riportiamo la nota integrale delle rettrici, nata dall’iniziativa della rettrice dell’Università degli Studi della Basilicata Aurelia Sole e controfirmata da Paola Inverardi dell’Università degli Studi dell’Aquila, Elda Morlicchio dell’ Università degli studi di Napoli “L’Orientale”, Maria Del Zompo dell’Università degli Studi di Cagliari, Monica Barni dell’Università per Stranieri di Siena, Cristina Messa dell’Università degli Studi di Milano Bicocca:
 
“Nelle ultime settimane, sulla rete e sui media, c’è stata una grande discussione sull’iniziativa “Concorso di Miss Università 2015, La studentessa più bella e Sapiente degli Atenei italiani“. a questo punto ci sembra opportuno fare alcune riflessioni più generali su una visione del ruolo dell’università a proposito delle questioni di genere.
Certo la notizia ha suscitato un certo smarrimento tra noi, come docenti e, soprattutto, come Rettrici. Certamente conterà in questa reazione il provenire da una generazione che ha sempre guardato con sospetto a iniziative di questo tipo, in cui si avverte come prevalente l’aspetto costrittivo del ruolo della donna, piuttosto che quello liberatorio o di emancipazione. Certamente molte cose sono cambiate ed è necessario oggi guardare alla realtà in cui viviamo con maggiore laicità, comprendere la dimensione spettacolare delle relazioni e dei fatti che accadono.
Ma, ci chiediamo, nella realtà-realtà cosa accade? La questione di genere è stata superata, è stata ridimensionata? Le donne vivono minori difficoltà nel proprio percorso di affermazione? Ci piace farci aiutare da una giovane donna, una scrittrice nigeriana, per alimentare le nostre riflessioni, Chimamanda Ngozi Adichie: in un suo brevissimo testo apparso da poco e già molto discusso, “Dovremmo essere tutti femministi”, a un certo punto ricorda come il problema degli stereotipi applicati al genere è quello di creare un modello che ‘prescrive come le donne dovrebbero essere e non riconosce come sono’, senza il peso delle aspettative che la società, la cultura dominante, continuamente, impone loro.
Non si tratta di una questione di poco conto, se pensiamo che proprio di questi stereotipi si alimenta, purtroppo la continua, immutabile, reiterata coercizione sociale, culturale, economica e fisica sulle donne che si manifesta in ambiti e con modalità diverse: nel fenomeno del femminicidio, innanzitutto – un termine orribile che contiene una radice antropologica che pare giustificare la sopraffazione di un genere sull’altro; ma anche, con minore clamore, nel contrasto tra il dinamismo delle donne nella piccola impresa innovativa, nella ricerca e nelle professioni, e lo scarto nella loro presenza nei ruoli di ngovernance della società.
Come ci ricorda Wangari Maathai, Nobel per la pace, ‘più sali, meno donne trovi’. E questo lo sappiamo bene anche nell’Università. Università che dovrebbe essere il luogo per eccellenza di sviluppo e di diffusione, soprattutto tra i giovani, di un pensiero critico che rifiuta gli stereotipi, nutrendosi di una attitudine al confronto in grado di superare i luoghi comuni. Università che, sviluppando una conoscenza di alto profilo, dovrebbe offrire gli strumenti per ‘destrutturare’ forme precostituite di adesione a modelli avvilenti anche attraverso l’incentivazione degli studi ‘di genere’, uno degli strumenti scientifici per individuare e ridiscutere – anche all’interno delle diverse aree disciplinari – il sistema binario di genere (dominante-dominato).
E dunque, proprio perché il meccanismo mentale e culturale dello stereotipo può apparire, soprattutto agli occhi dei giovani, affascinante, in quanto fondato su un sistema di rappresentazione che semplifica la realtà, riducendola a una sbiadita copia di un mondo della comunicazione che appare dover modellare la quotidianità, riteniamo che l’educazione di genere debba, attraverso opportuni percorsi formativi, incoraggiare la lotta alla banalizzazione e offrire ai giovani, donne e uomini che siano, modelli plurali e scelte consapevoli nella costruzione della propria identità. Nel rispetto delle peculiarità di genere, è necessario pertanto che chi ha la responsabilità della trasmissione del sapere e della formazione di un pensiero critico promuova lo sviluppo delle capacità di ciascuno piuttosto che la banalizzazione dell’aspetto. 
L’Università, riteniamo, deve promuovere processi che non discriminino, che superino le differenze in una sintesi sempre nuova, avanzata e inclusiva, capace di rispondere alle sfide che la crescente complessità della società attuale pone.
I problemi dell’Università italiana, come sappiamo, sono ampi e profondi, ma proprio per questo riteniamo che chi ha un ruolo di responsabilità e di garanzia sia chiamato a rappresentarla nelle forme più proprie e confacenti a una missione alta e critica, che va continuamente rinnovata e difesa”.

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