Com’è cambiata la vita a 5 anni dal titolo universitario? A raccontarcelo sono i dati del XVII Rapporto sulla Condizione occupazionale dei laureati, in particolare sulla mobilità in uscita dall’università: dalla sede degli studi universitari alla sede lavorativa.
L’indagine mostra che la quota di laureati occupati “stanziali” si attesta al 66% (era quasi l’80% al momento dell’iscrizione all’università): in particolare, il 45% studia e lavora nella stessa provincia, il 21% in una provincia limitrofa. Cresce invece la quota di laureati “mobili” al 34% (era il 20% al momento dell’iscrizione all’università). Nel dettaglio, il 13% studia in una provincia non limitrofa, ma nella stessa ripartizione geografica; il 14% in un’altra ripartizione geografica, in particolare dal Sud-Isole al Nord o al Centro (5%). La quota di coloro che migrano all’estero per lavoro è pari al 7%. L’analisi mostra particolari differenze rispetto al percorso di studi intrapreso: i laureati del gruppo linguistico sono i più mobili (43%), seguiti da agraria e veterinaria (40%) e dal politico-sociale (39%). Si spostano nettamente meno dei loro colleghi i laureati nei percorsi giuridico (26%), delle professioni sanitarie e dell’insegnamento (29%).
LAUREATI IN FUGA ALL’ESTERO – Discorso a parte merita il nutrito gruppo di laureati che una volta terminati gli studi sceglie di andare a lavorare all’estero (7%) e che risulta assolutamente appagato dalla decisione presa, tanto che la quasi totalità la ripeterebbe. Ma perché si spostano? Principalmente per la mancanza di opportunità di lavoro in Italia. Analizzando più approfonditamente i dati emerge che i laureati che scelgono di migrare oltre confine per motivi professionali sono più presenti tra i laureati degli atenei del Nord (10%) e del Centro (7%); sono solo il 3% tra i laureati che hanno studiato nel Sud. In particolare sono molto presenti tra i laureati in lingue (16%), scientifico (14%), ingegneria (11%); la quota decresce (al di sotto del 5%) per i laureati dei gruppi giuridico, insegnamento, psicologico, professioni sanitarie ed educazione fisica.
DOVE SI SPOSTANO – Ma in quali paesi vanno a lavorare? La maggior parte lavora in Europa (82%); più nel dettaglio, nel Regno Unito (17%), Francia (15%), Germania (12%) e in Svizzera (11%). Seguono Stati Uniti e Belgio (7% per entrambi). Dall’analisi emerge che i laureati che migrano verso l’estero, non solo guadagnano di più degli stanziali, ma sono anche più soddisfatti del lavoro svolto rispetto alla stabilità dell’occupazione, all’acquisizione di professionalità e riscontrano maggiori prospettive di crescita professionale, tanto che il 41% molto improbabile il rientro in Italia, cui si aggiunge un ulteriore 39% che lo ritiene poco probabile; resta pur sempre vero che il 20% non sa esprimere una valutazione.
Integrando più opportunamente la documentazione relativa alla mobilità in entrata e in uscita emerge che:
1) I flussi di mobilità sono differenti a livello territoriale: – il Mezzogiorno perde circa il 40% di giovani, provenienti in maggior misura da contesti famigliari più avvantaggiati dal punto di vista culturale ed economico e che decidono di spostarsi per studiare e lavorare prevalentemente al Nord. I flussi più rilevanti riguardano, in particolare, il 9% dei laureati, che ha conseguito il titolo al Sud-Isole e si è spostato al Nord per lavoro, l’8% che ha studiato e lavora al Centro, un altro 8% che ha studiato al Nord ed è rimasto a lavorare al Nord. – la quasi totalità dei giovani del Nord (circa il 90%) ha svolto gli studi universitari e attualmente lavora al Nord; l’unico flusso di una certa consistenza è il trasferimento per lavoro all’estero (6%). – tra i giovani residenti al Centro, anche se la gran parte dei laureati non ha mai abbandonato la propria residenza (76%), una certa quota (6%), dopo aver studiato dove risiedeva, lavora al Nord; il 5% torna a lavorare al Centro dopo aver studiato al Nord.
2) I flussi di mobilità territoriale evidenziati sottolineano come, nel periodo compreso tra il 2004 e il 2014, le regioni del Sud-Isole abbiano perso costantemente capitale umano culturalmente avvantaggiato che ha deciso di migrare al Nord, dove si registrano tassi di occupazione più elevati, un’offerta formativa più varia e capillare, una migliore copertura delle borse di studio (tasso di beneficiari su idonei) e atenei con una maggiore qualità della ricerca (in base alla classifica Anvur). Per le regioni del Centro la mobilità verso il Nord dei giovani con un background culturale elevato è invece controbilanciata dalla quota dei giovani che dal Sud-Isole migrano al Centro per studiare.
3) Questo flusso migratorio che, come si è visto, è diretto principalmente dal Sud-Isole al Nord, rischia di impoverire sempre di più le regioni meridionali e di innescare con il trascorrere del tempo un inasprimento delle differenze tra aree e gruppi sociali, ingessando la struttura sociale del nostro Paese. Questo perché, come emerge dall’analisi congiunta del fenomeno della mobilità territoriale in entrata e in uscita, a parità di tutte le condizioni, a spostarsi maggiormente per motivi di studio e lavoro sono soprattutto coloro che provengono da contesti famigliari più favoriti dal punto di vista culturale ed economico e coloro che hanno performance di studio migliori. Questo fenomeno di “svuotamento” sta interessando più in generale il Paese nel suo complesso con il medesimo effetto di “circolo vizioso”: sebbene in misura ancora nettamente più contenuta rispetto a quanto non accada già nel Sud-Isole, l’Italia sta in infatti perdendo i suoi laureati più brillanti e meglio formati, coloro che scelgono di migrare all’estero dove il loro potenziale è valorizzato fin dal primo inserimento nel mercato del lavoro. Pertanto, come ha più volte ribadito AlmaLaurea, la mobilità in sé non è un problema – anzi, come dimostrano le economie dei paesi più avanzati, è un fattore di crescita che deve essere incentivato perché stimola l’efficienza. Ma al “brain drain”, ad oggi, non corrisponde una “brain circulation”, ovvero il nostro Paese, in particolare le aree meridionali, non attira capitale umano altamente qualificato, che in questo modo con il trascorrere del tempo resta sempre più impoverito. A questo fine, è necessario in un Paese come il nostro, che vanta un deficit strutturale nei livelli di scolarizzazione e una scarsa mobilità sociale oltre che territoriale, soprattutto nei periodi di ripresa economica, un maggiore impegno in termini di risorse umane e finanziarie rispetto ai paesi più avanzati che oggi prendiamo a modello e che hanno utilizzato per crescere come principio proprio quello “dell’equità e dell’efficienza”.
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