La studentessa Emma Ruzzon a Corriereuniv.it: “Oggi si eccelle non per avere una carriera strabiliante ma per sperare di ottenere uno straccio di contratto”

“Soltanto nell’Università di Padova ci sono 2400 vincitori di borsa di studio ma non percettori perché non ci sono i fondi. Quelli stanziati dalla ministra servono per tappare i buchi ma dal prossimo anno, per due anni, e poi dopo il 2025?”

Sono passati sette giorni da quando lo scorso lunedì la presidente del Consiglio degli Studenti dell’Università di Padova, Emma Ruzzon, ha parlato all’inaugurazione dell’801esimo anno accademico dell’Ateneo. Il suo discorso ha fatto il giro del web e dei social. “Quand’è che studiare è diventato una gara? Da quando formarsi è diventato secondario rispetto al performare?“. Un monito che ha come sfondo le tragedie dei suicidi degli studenti universitari, l’ultimo accaduto poche settimane fa, e che sempre più spesso coglie i giovani in Europa, oltre che nel nostro Paese. L’Università è un luogo di conoscenza o di preparazione performante ad un mondo del lavoro sempre più precario che mette in competizione i giovani a cui sono lasciate sempre meno risorse? Corriereuniv.it ha raggiunto proprio Emma per porgli alcune domande come studentessa, come giovane e come donna.

Perchè la scelta del tema della salute mentale?

“L’episodio della IULM era accaduto da pochi giorni. Insieme agli altri studenti dell’Unione degli Universitari abbiamo scelto anche il nastro verde della corona d’alloro per simboleggiare la problematica della salute mentale. Oltre ai fatti tragici, che sono tutti diversi, lanciano delle grida d’aiuto che sono inequivocabili: un suicidio all’interno dell’università, durante una sessione di esami, con una lettera indirizzata al Rettore in cui si dice la mia vita è un fallimento, a 19 anni. Ci sembrava obbligatorio parlarne”.

“Nel momento in cui non ci sono tutele o garanzie per far partire tutti dallo stesso livello è impossibile parlare di chi si è meritato qualcosa rispetto ad un altro basandosi sul risultato di chi si è laureato per primo o sulla media. Soprattutto in Regione Veneto e a Padova siamo di fronte da anni ad un definanziamento del diritto allo studio: 2400 persone quest’anno nella nostra università non hanno potuto usufruire della borsa di studio che era stata loro assegnata, quindi come possono queste persone avere quel benessere ecnomico per potersi concentrare sullo studio? In Italia la percentuale di borse di studio copre una fascia isee molto bassa, inoltre la maggior parte di esse non sono coperte da finanziamenti strutturarli, una carenza nella carenza”.

“L’impressione che abbiamo è che l’Università sia diventata più una fucina di lavoratori invece che un luogo di cultura e di apprendimento. L’insegnamento di un luogo di studio superiore dove poter prendersi del tempo per apprendere, capire se stessi e il mondo che ci circonda per poi poter fare le proprie scelte nella vita e nel mondo del lavoro, l’idea propugnata invece è quella di non fermarsi, mettere in un angolo il tuo dolore, lasciarlo lì, perché non è importante finché non scoppia. Questo è sbagliatissimo. I suicidi sono solo la punta di un iceberg molto più grande”.

Come potrebbero essere aiutati gli studenti?

“Riguardo al bonus psicologo, bene che ci sia un riconoscimento del problema da parte di tutte le forze politiche ma il finanziamento deve essere reale e non meno di quanto era stato chiesto. Quello di cui abbiamo bisogno è di un bonus psicologo strutturale, ma anche di tutta una serie di altre misure preventive per limitare ciò che nel percorso universitario crea disagio psicologico. Da un altro punto di vista, invece, riprensare interamente il sistema educativo, prevedere dei servizi di supporto psicologico all’interno l’università e le scuole che facciano da cerniera con quello più specifico, ad esempio dei presidi. E non solo per gli studenti ma anche per i dipendenti che aiuterebbero a prevenire tante problematiche che poi sfociano nella cronaca, anche nera”.

Il precariato lavorativo che spesso tocca i giovani influenza la percezione dell’università?

“Si, quello che percepiamo è che l’idea di eccellere nel nostro percorso di studi non è più legato a fare una carriera strabiliante ma l’unico modo per accaparrarsi uno straccio di contratto una volta usciti dal percorso accademico. Si combatte non per il meglio ma per una vita dignitosa che dovrebbe essere un diritto per tutti. Anche a livello lavorativo non è solo sbagliato perché non dovrebbe essere così, ma oggi nel mondo del lavoro c’è il team building: non mettersi in competizione ma aiutarsi per lavorare meglio e portare a casa un risultato”.

Le differenze di genere oggi sono ancora una discriminante nel mondo universitario?

“Bisogna fare una distinzione tra il mondo studenti e post laurea. Nel primo c’è ancora una forte differenza a livello di corsi di laurea scelti tra donne e uomini. Per le persone che si identificano in un altro genere si parla propiro di discriminazioni e si apre un mondo a parte, mentre da donne e uomini è una problematica che andrebbe affrontata all’origine, con cosa si insegna ai bambini e alle bambine su cosa possono essere o aspirare. Si parla molto di donne nelle lauree STEM e molto meno di uomini rispetto lauree pedagogiche o di assistenza all’infanzia. Inoltre c’è un problema di forbice: ci sono più iscritte donne all’università e che si laureano, mentre appena si termina e si entra nel mondo del lavoro chi riesce a progredire di carriera è tendenzialmente uomo. Questo è un aspetto culturale, vi è un maschilismo diffuso nella nostra società, ma anche un problema di politiche in termini di genitorialità. Quindi si i problemi da risolvere sono ancora tanti da questo punto di vista, dobbiamo dare alle donne, e non solo alle donne, le stesse prossibilità degli uomini”.

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