Cervello in fuga? No. Cervello in corsa. Ha le idee chiare Pasquale Borea, professore di Diritto Internazionale e preside di facoltà alla Royal University for Women del Bahrein, l’unico Ateneo femminile del Paese. Dopo un futuro incerto in Italia, Pasquale ha deciso di tentare la via dell’internazionalizzazione. Ora, a 34 anni, è diventato il più giovane preside di facoltà al mondo. Italiano.
“Da sempre la mia carriera ha avuto una proiezione internazionale – racconta da Manama al Corriere dell’Università– dopo gli studi universitari in Italia, ho avuto diverse esperienze di post-dottorato all’estero. Ho guardato al di là dell’Italia, verificando le posizioni accademiche messe a bando in alcuni atenei di ranking medio-alto, alcuni mi hanno risposto, altri no, in certi casi non ho superato le selezioni preliminari. Poi, mentre ero in “visiting” al Max Planck Institute di Heidelberg, ho partecipato alla procedura di valutazione per professore associato bandita dalla Royal University del Bahrein: ho superato le prove affrontate in competizione con colleghi iraniani, americani e indiani. Da lì, la decisione di accettare l’incarico”.
DIFFERENZE – Tra Italia e Bahrein c’è un abisso. E non solo dal punto di vista geografico. Mettiamo a confronto, ad esempio, i sistemi universitari dei due Paesi. “Differenze? Parecchie. Parliamo delle principali. Prima di tutto dal punto di vista contrattuale. È difficilissimo, in casi come questi, trovare posizioni a tempo indeterminato. Come dicevo in precedenza la maggior parte dei contratti sono legati agli obiettivi da raggiungere. Nel mio Ateneo, inoltre, c’è un monitoraggio continuo: il ministero, da parte sua, ogni sei mesi applica dei meccanismi di controllo e di ispezione. In Italia penso di non aver mai visto una cosa del genere”.
Secondo punto, la valutazione. “Diciamocelo chiaramente: il sistema di valutazione è completamente diverso. Da noi i professori difficilmente sono sottoposti, come qui, a rigidi meccanismi di valutazione. Nel nostro Ateneo si applicano ad ogni semestre”.
Terzo punto. “C’è una grande attenzione alla ricerca, tutti i nostri corsi sono in inglese, e solo alcuni in Arabo, in Italia quanti atenei offrono corsi in inglese? Pensi al caso del Politecnico di Milano, dove, ad esempio, la decisione di attivare o meno corsi in lingua inglese è finita addirittura al Consiglio di Stato: forse c’erano professori che non avevano competenze adeguate e hanno protestato. Ecco, in Italia si farebbe bene a discutere di questo e delle prospettive dell’offerta formativa”.
CERVELLO IN FUGA? -Pasquale non ama essere chiamato Cervello in fuga. Anzi. “Per definirmi userei una frase usata da un mio collega, forse la definizione più appropriata è “Cervello in corsa”. E rispondo già alla sua domanda successiva: tornerei in Italia? Di sicuro, ma dipende a quali condizioni. Lasciamo stare quelle economiche, che sarei disposto a trascurare. Parliamo della qualità dell’offerta didattica, della competitività, dell’internazionalizzazione. In Bahrein si parla di responsabilità, piani di azione specifici, competenze. Io insegno in lingua inglese in un paese arabo a studentesse che vengono da tutto il mondo: mi chiedo, a questo punto, quale potrebbe essere il mio ruolo in una università in cui i corsi in inglese non si attivano, l’internazionalizzazione resta un concetto vago ed approssimativo, molto spesso riassunto in un convegno annuale. Non si possono chiudere gli occhi davanti ad un vertiginoso calo degli iscritti. Abbiamo un governo giovane: una riforma dell’intero sistema si potrebbe fare, a mio avviso, in due giorni. Resta il fatto – precisa – che l’Italia, a mio modo di vedere, vanta una preparazione universitaria valida, anche a livello internazionale, ma può e deve offrire di più, molto di più”.
SI’, VIAGGIARE -Cosa devono e possono fare gli studenti italiani? “Studiare le lingue e fare esperienze all’estero per me è stato fondamentale. Bisogna capire che le opportunità ci sono, ma non più sotto il portone di casa. Bisogna mettersi in competizione con un mercato che è diventato globale, all’occorrenza essere disposti a fare il sacrificio, enorme, di lasciare il proprio paese, nella speranza che sia poi l’Italia un giorno a capire che la “guerra” della competizione globale non si potrà mai vincere senza “soldati” giovani e forti tra le proprie fila. L’impressione è che, purtroppo, il sistema Italia stia affrontando certe sfide con un esercito di “generali” con molte e datate medaglie ma per nulla abituati a combattere”.
Raffaele Nappi