Non conosco termine più inflazionato di “comfort zone”.
A nominarla, siamo buoni tutti.
La usiamo come alibi quando le cose vanno male, quando il percorso tracciato devia, quando cerchiamo a tutti i costi di colmare il solco tra chi siamo e chi vorremmo essere, quando siamo completamente impauriti e troppo stupidi per ammetterlo.
Io, la comfort zone l’ho toccata con mano. E, concretamente, era (e forse è) fatta di Roma, delle sue strade che sono le mie, dei suoi autobus in ritardo che sono i miei, delle sue offerte 2×1 nei supermercati, dei suoi tramonti sul Pincio e di tutte le volte che l’ho odiata per ritrovarmi, esasperata, ad amarla.
Io, la comfort zone l’ho toccata con mano e, una volta toccata, padroneggiata e amata, l’ho completamente distrutta.
Nei miei mesi a Gent, nell’ordine, ho perso: un parrucchiere, l’abitudine di accendere la radio al mattino mentre rifaccio il letto, la serenità di preparare un esame, la libertà di parlare disinvolta con chiunque, il piacere di fare una battuta pertinente, il vizio di coccolarmi in un posto figo con un vino buono, la comodità di poter decidere cosa mettermi perché ho un armadio illimitato, la capacità di calcolare il minuto esatto in cui la metro arriverà, l’autonomia di balzare gli aperitivi e abbozzare cene, il sottile benessere di arrivare in facoltà e intrattenere una conversazione con quello o quell’altro perché sono nella mia base, nel perimetro di posti, emozioni e persone che mi hanno cresciuta, formata, commossa, accompagnata.
In compenso, a Gent ho trovato: una convivenza ampia, complessa, meravigliosa e difficile, improbabili luoghi in cui avrei messo piede solo da ubriaca, panorami mozzafiato e asettici, flixbus a basso costo che mi hanno portata ovunque sopportando odori e malumori, vulnerabilità che non credevo di poter avere mai.
Ma, prima di nominare la comfort zone, sappiate che state parlando di sciogliere nodi interiori, continuare riflessioni lasciate ai puntini di sospensione, indebolire abitudini faticosamente costruite, mettere in discussione tutto, rivalutare gli affetti, affrontare consapevolezze, muovere il futuro guardando al presente.
La comfort zone è una destinazione che fa pagare caro il biglietto: pretende di essere toccata, distrutta e ricostruita. E, per farlo, ci vuole robusta pazienza, instancabile fatica (tantissima fatica) e illimitato amore per se stessi: capiterà molto spesso di non sentirsi abbastanza e quello sarà l’inizio di tutto.
Adesso sì che sapete che cos’è: è la decostruzione che costruisce.
Erasmus lo è.
Nicoletta Labarile