È un cavallo di battaglia dei media, una vexata quaestio sempre di moda: la fuga di cervelli. Ragazzi che vanno all’estero perché non trovano sbocchi nei nostri atenei o perché fuori sei valorizzato meglio. Noi ne abbiamo rintracciato uno, anzi una: napoletana, trentadue anni ed un know-how di ricerca di base sulle molecole a farle le spalle larghe nella terra che assegna i Nobel: Valentina Fedele. La nostra ricercatrice, che concorre all’alzabandiera della formazione made in Italy in quel di Svezia, si è gentilmente prestata a fare quattro chiacchiere a 360 gradi su ricerca, università e baronie facendo emergere, qualora vi fossero altri dubbi, quanto siano bravi i nostri ragazzi all’estero, quanta preparazione di alto spessore diano gli atenei italiani ma, ahimè, quanti dubbi e perplessità su un sistema spesso pieno di ombre e contraddizioni come il nostro.
Valentina, potresti chiarire il tuo percorso universitario e post universitario italiano e estero?
Mi sono laureata in Scienze Biologiche alla Federico II di Napoli nel giugno del 2001, nell’ottobre dello stesso anno vinsi il Dottorato di Ricerca e ad ottobre del 2003 sono partita per l’Inghilterra perché vi era la possibilità di approfondire gli studi all’estero ma, una volta arrivata lì quella che doveva essere una permanenza di tre mesi si è tramutata in una proposta per finire l’intero Dottorato da loro ed in più mi hanno offerto un contratto di lavoro nel settore della ricerca molecolare. A settembre del 2007 è terminata questa esperienza in una struttura similare al nostro CNR, il Medical Research Council che si trova a Leicaster. Da febbraio 2008 sono in Svezia a Lund dove mi occupo di malattie neurovegetative tra cui il morbo di Parkinson presso il Neuronal Survival Unit Department of Experimental Medical Science Wallenberg Neuroscience Center.
Cosa ti ha spinto a lasciare la ricerca in Italia?
All’inizio partii con la sola idea di capire cosa fosse lavorare e fare ricerca all’estero e non avevo alcuna intensione di trattenermi. Ma subito mi accorsi che il modo di lavorare era diverso, molto più stimolante, per farti capire immagina che a Napoli non avevo neanche un tecnico di laboratorio che mi seguisse negli esperimenti. In Inghilterra c’era tra noi studenti molta più competizione, ti mettevano a disposizione molto mezzi tecnici come pure la condivisione delle loro conoscenze scientifiche ma pretendevano molto sia in termini di quantità che di qualità. Quando sei un Phd (l’omologo del nostro Dottorato ndr) si aspettano che lavori fino all’esaurimento. Ci sono stati momenti in cui avrei voluto tornare ma quando, alla fine del Dottorato, mi hanno fatto una proposta di lavoro, capii che avevo prodotto qualcosa.
Quando la Federico II ha capito che ti stava “perdendo” cosa ti ha proposto?
Un concorso a Ricercatore dopo 10 anni (eravamo nel 2007 ndr).
Vuoi dire che ti avevano detto che l’avresti vinto a scatola chiusa?
No!? – Valentina ride – diciamo che in base alla tempistica che c’è in Italia, questo è il periodo medio che passa tra un Dottorato e il divenire ricercatore… tutto qui, nulla di anomalo dunque, solo una legittima previsione.
Quale docente aveva fatto questa “previsione”?
No, nomi preferisco non farne.
E fino al 2017 di cosa avresti campato? Avrai pure posto il quesito a qualcuno a Napoli.
Con delle supplenze universitarie di stramacchio e facendo didattica, considera, tra l’altro, che i dottorandi italiani la fanno da subito mentre in Inghilterra eseguono solo ricerca di base. Insomma mi aspettava un decennio di precariato a non più di 800 euro al mese iniziali, se tutto fosse andato bene mentre qui una volta consegnata la tesi nell’ottobre del 2004 già il 9 novembre firmai un contratto da 1524 sterline al mese più i contributi più vari incrementi ogni anno, valuta un po’ tu! Forse in Italia sarei arrivata al massimo, nel corso degli anni a 1000, 1200 euro al mese.
Hai mai avuto possibilità concrete di ritornare in Italia?
Ho avuto l’offerta di un Co.Co.Pro dalla Dompè Farmaceutica dove avrei guadagnato 1500 euro netti al mese ed in più una borsa di studio dal Mario Negri di Milano che rifiutai per motivi personali.
Si parla tanto di casta, secondo te qui da noi i concorsi a ricercatore li vince il più bravo o il più protetto dal sistema?
In alcuni casi questi concorsi li vince il più bravo ma sono rari, spesso li vince quello più protetto dal sistema. Ho avuto la netta impressione che esista una casta all’interno dell’università. La meritocrazia ha poco peso, figli e nipoti vanno avanti, e questo, sia chiaro, esiste anche all’estero. In Italia certe persone hanno molto potere e sono intoccabili anche per i fondi che riescono ad ottenere; ma anche se sei un “Barone”, credo comunque che dovresti crescere professionalmente, purtroppo però non è così.
E gli italiani all’estero come sono visti?
Nel settore della ricerca destano una grande impressione, sono grandi lavoratori molto affidabili, l’importante è laurearsi presto e bene, il mercato europeo fa entrare ragazzi molto giovani che si fanno plasmare e noi italiani siamo abbastanza preparati, però sai, a 28 anni dover competere con uno di 22 è una bella sfida.
Rifaresti di nuovo le tue scelte?
Si!
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