“Noi cervelli in fuga”: i giovani che lasciano l’Italia

Exit Only, un libro dove Giulia Pastorella (expat) racconta le storie di quei talenti che si sono trasferiti all’estero per smettere di essere invisibili. “Pensiamo a cosa li ha fatti andar via”

Uscita obbligatoria non lascia molte interpretazioni, sopratutto se l’argomento sono i ‘cervelli in fuga’. Una generazione che ha deciso di portare la propria professionalità e competenza fuori dal loro Paese d’origine e costruire una vita all’estero o in un Paese europeo. Sono gli attuali trentenni, quelli cresciuti tra Erasmus e tentativo di globalizzazione, tra il web e il sogno europeo, e che hanno fatto le valigie per il bisogno di autodeterminarsi e lasciare un Paese in cui erano invisibili.

Una “fuga di cervelli” consapevole

“Quando sono andata via l’ho fatto per scelta. La mia non è stata una fuga, ma è stato piuttosto un andare verso” racconta a Repubblica Giulia Pastorella, autrice di Exit Only (Laterza, 2021), libro che tenta di smontare gli stereotipi e il dibattito semplicistico intorno agli expat. Milanese di nascita, belga di adozione, ha lasciato l’Italia a diciassette anni per terminare il liceo nel Regno Unito. Gli studi ad Oxford, un dottorato alla London School of Economics e poi un lavoro a Bruxelles come direttrice delle relazioni istituzionali in una multinazionale dell’high tech. La sua esperienza è di per se uno punto di vista da una diversa angolazione del tema expat. “Tecnicamente non sono un cervello in fuga, quando ho lasciato l’Italia ero troppo piccola per essere considerata tale. E la mia esperienza sottolinea l’importanza di non banalizzare il fenomeno con una retorica semplicistica“. Di storie, nella sua ricerca per scrivere il suo libro, ne ha raccolte tante e ognuna dimostra che nella narrazione che si fa degli expat si dà sempre per scontato che scappino all’estero sempre e solo per necessità.

Una politica disinteressata ai giovani

Roberto è un ingegnere informatico che vive e lavora a Zurigo. Per sua stessa ammissione non ha un curriculum eccellente, solo un buon curriculum. Eppure, in Svizzera ha trovato soddisfatte le proprie competenze, quelle che l’Italia si è lasciata sfuggire. Il suo caso è emblematico per smontare un altro stereotipo: non sono solo i geni ad andare via. “Non se ne vanno solo i cervelli, ma anzi è una parte molto minoritaria del fenomeno della fuga di una generazione perduta. Noi ci focalizziamo su quelli che fanno le prime pagine, ma non ci rendiamo conto che stiamo perdendo tutta un’altra fascia di lavoratori che non sono meno importanti per il Paese” continua Pastorella. Se spesso il problema sono i posti di lavoro, è certamente la mancanza di una cultura imprenditoriale e lavorativa più internazionale che spinge i giovani a non tornare. È il caso di Silvio, programmatore di videogiochi che, a un certo punto, si è trovato davanti a un bivio: inseguire il suo sogno all’estero o adattare le sue competenze a ribasso, restando in Italia come informatico. La scelta è ricaduta sul Regno Unito, dove il mercato del lavoro è dinamico e il welfare prioritario.

Non solo il top dei cervelli è in fuga

Già, perché intorno agli expat non c’è solo il lavoro qualificato che in Italia non c’è, ma la necessità di avere una rete sociale sicura, una politica che si occupi della persona in senso più ampio. Proprio l’Ocse ha indicato il family environment come uno degli indicatori che attraggono i talenti. E sulla questione familiare, Giulia Pastorella racconta di F., giovane professionista omosessuale che ha trascorso diversi anni negli Stati Uniti, e i suoi timori nel rientro. La preoccupazione di gestire in Italia la sua vita di coppia, le norme egualitarie che non sono nell’agenda politica, il mancato riconoscimento del suo matrimonio. A rendere un Paese attrattivo, spesso, è il riconoscimento delle diversità sia in ambito sociale che accademico, e la capacità di soddisfare le sfumature. In ambito universitario, per esempio, fuori dall’Italia sembra non esserci il bisogno di essere un trentenne speciale per essere notato. “Tutti i ricercatori che ottengono grants internazionali non è che siano dei geni, ma nel loro dipartimento ci sono uffici dedicati che danno un supporto, donando anche alla persona mediocre la possibilità di usare tutti i propri talenti. Ognuno di noi ha delle specifiche qualità che sta alla classe politica e impreditorale tirarle fuori. Questo in Italia non succede”.

L’Italia non investe nei giovani

Le politiche pubbliche e il mercato del lavoro, in Italia, tendono a valorizzare i lavoratori più anziani e ai giovani restano solo i lavoretti, quelli legati alla gig economy o a partita iva, senza essere presi mai sul serio. Oltre i confini, invece, sui giovani si scommette. È il caso di Manuela, ventenne, che a Londra frequenta un tirocinio pagato in una delle più grandi aziende in ambito videoludico. O Alberto, che in Olanda è diventato in poco tempo coordinator di un’importante organizzazione non governativa, restando stupito della velocità con cui hanno puntato sulla sua professionalità. Cosa impossibile in un’Italia immobile.

La narrazione politica sui cervelli in fuga si muove su due binari: quella emotiva del “regaliamo i nostri migliori talenti” e l’aperta condanna verso chi tradisce il proprio Paese d’origine. Per Giulia Pastorella l’atteggiamento politico sulla questione è a metà tra il paternalistico e il biasimo, come tutto quello che tocca i giovani, anche quelli che decidono di restare. “La questione non viene approfondita, oltre i bonus a pioggia non si è mai sviluppato un serio dibattito sulle cause e conseguenze di questo fenomeno”. Perché quello che manca è la possibilità di scelta. Se il Covid ha fatto tornare tanti expat, tra quarantena e successiva possibilità di smartworking, il fenomeno è certamente temporaneo se non si decide di cambiare passo e puntare su un serio ricambio generazionale. Così, dietro ogni storia di cervello in fuga resta il retrogusto amaro di chi non ha avuto altra scelta se non quella di puntare oltre confine, a un’obbligata ‘exit only’.

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