La riflessione del rettore della Bocconi: “Italia ha troppi pochi laureati, creare comunità universitarie”

Il rettore della Bocconi: “Per superare la problematica occorre puntare sui campus dove i giovani vivano l’università come era da principio in Italia”

Italia ha troppo pochi laureati. Lo sono meno del 30% dei giovani in età tra 25 e 34 anni, una cifra che nei confronti Ocse ci colloca sotto Colombia e Costa Rica, anche se appena sopra Messico e Brasile. Siamo ben lontani dalla Corea, dal Giappone, ma anche dall’Irlanda che superano il 60%. Sul Corriere della Sera il rettore dell‘Università Bocconi, Francesco Billari, lancia un allarme sullo stato dell’Univeristà italiana.

“Negli anni è aumentata la quota di ragazzi che consegue un diploma di maturità: ormai sono la netta maggioranza. Rimane però ancora molto da fare. Arrivano meno facilmente al diploma coloro che provengono da strati socioeconomici svantaggiati e i ragazzi di seconda generazione; inoltre sta emergendo un problema di svantaggio dei ragazzi rispetto alle ragazze”.

“Chi, per diversi motivi connessi a svantaggi socioeconomici, si orienta verso percorsi professionali o tecnici ha ancora una probabilità molto inferiore di iscriversi all’università. Non a caso molti Paesi, dalla Finlandia al Regno Unito, con una quota di laureati superiore al nostro hanno un sistema basato su una scuola secondaria unica fino a 16 anni, che non costringe le famiglie a compiere scelte con conseguenze di lungo periodo a 13 anni. Nella prima tappa dobbiamo dunque creare percorsi aperti, che lascino più opzioni, e far sì che il più alto numero possibile di studenti giunga al termine con successo. Non possiamo permetterci di avere pochi diplomati che aspirino a proseguire gli studi a livello universitario, una quota questa mai decollata e che è addirittura calata fino a poco sopra il 50%, come mostrano le dettagliate analisi degli statistici sociali Attanasio e Porcu su dati Istat”.

È chiaro che a livello universitario, la seconda tappa, serve una vera discontinuità. Quale? Per semplificare la discussione potremmo contrapporre due strategie. Una basata sulla famiglia, per cui l’università tende ad “andare a casa” dello studente, l’altra orientata all’autonomia dei giovani, in cui una parte rilevante, idealmente maggioritaria, degli studenti, si trasferisce per “andare all’università”. “L’Italia ha essenzialmente adottato la strategia basata sulla famiglia, con investimenti nell’edilizia universitaria storicamente scarsi e un’espansione del sistema volta a creare sedi talvolta poco frequentate e senza una massa critica, e senza il coraggio di consentire la differenziazione tra atenei a vocazione locale, con studenti pendolari, e atenei attrattori. Sempre basata sulla famiglia, in un legame tra tradizione e innovazione, è anche la strategia che propone la neonata associazione delle università digitali che, come afferma il neopresidente Miccoli, vede un sistema universitario “capillare, flessibile e accessibile”, con una prevalenza della componente online, come la chiave principale per ridurre il gap per i laureati”.

Le università online

L’apprendimento telematico consente una flessibilità che permette di includere chi lavora (un tempo si parlava di “studenti lavoratori” e in diversi Paesi si sono sviluppate reputate “open universities”), oppure chi si trova in condizioni personali o familiari particolari. La strategia basata sulla famiglia non costringe veramente il sistema, pubblico e privato a investire sui giovani. Inoltre genera gli stessi problemi di diseguaglianza per origine socioeconomica già visti per la prima tappa, acuiti da una maggiore facilità di abbandono e di galleggiamento a bassa velocità. “Proprio durante la pandemia – continua Billari – sono venute alla luce importanti differenze dovute alla qualità delle abitazioni per gli studenti o i lavoratori “smart”: le case migliori per studiare online sono quelle ampie, connesse e ben attrezzate delle famiglie benestanti. Le camere da letto, anche se non condivise, non sono i luoghi ideali per l’apprendimento universitario”.

“Poiché la strategia basata sulla famiglia non ha funzionato, dobbiamo pensare a quella alternativa: un sistema che, in generale, orienti gli studenti ad “andare alle università”, a far pienamente parte, per un periodo decisivo della propria vita, di una comunità di apprendimento. Proprio l’idea iniziale di università inventata in Italia. Va bene avere alcuni atenei con vocazione territoriale, ma il sistema dei college è lo standard nella quasi totalità dei Paesi avanzati che ci precedono in termini di quota di laureati. Dobbiamo perciò imparare da loro: con maggiori investimenti sui giovani e in particolare in borse di studio, incrementando in modo deciso l’offerta di residenze studentesche e creando delle vere e proprie esperienze di campus”.

Gli atenei, poi, devono occuparsi di più degli studenti, al di là delle lezioni e degli esami, impegnandosi per l’inclusione e per il benessere studentesco a tutto tondo, anche per minimizzare il dropout che rischia di acuirsi dopo il Covid 19. La studentessa e lo studente devono avere la possibilità di frequentare, per un periodo temporale ben definito, un campus con scambi di sapere ed eventi, un luogo fisico, agevolato dalle tecnologie digitali, anche di costruzione di reti sociali che rimarranno significative per tutta la vita.

“Per creare comunità universitarie – conclude il rettore della Bocconi – occorre mobilitare tutte le risorse disponibili, pubbliche e private. Non a caso anche il mercato risponde alle esigenze dei giovani con la costruzione di residenze private nelle città universitarie, in Olanda come a Milano. Serve anche un impegno forte del pubblico. Puntiamo in modo deciso sulle giovani generazioni. Mettiamo finalmente in condizione gli studenti vivere l’unversità, crescendo, imparando, costruendo il loro futuro, quello del Paese”.

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