Carlo Ratti: “Le cose più belle accadono sui confini di ciò che già conosciamo.” 

Intervista esclusiva di Corriereuniv.it al guru del Design, Carlo Ratti, architetto e ingegnere torinese, fondatore e direttore del SENSEable City Lab al MIT – Massachusetts Institute of Technology di Boston. Classe 1971, è stato nominato tra i 25 creativi che cambieranno il mondo del design.  

Carlo Ratti ci racconta com’è iniziatala sua carriera?

In famiglia è sempre stata presente l’influenza di mio nonno, Angelo Frisa, che nel Novecento ha lavorato come ingegnere strutturale realizzando grandi opere in Italia e all’estero – dallo Stadio Olimpico di Roma allo stabilimento Fiat di Mirafiori. Io ho continuato questa strada e mi sono occupato di ingegneria, di architettura, ma sempre di più ho avuto il desiderio di esplorare nuovi ambiti: ad esempio l’informatica, la fisica e il legame con l’ambiente della città. 

Qual è stata la sua arma vincente?

Non so quanto sia un’arma vincente in generale, ma mi ha sempre incuriosito sperimentare e non chiudermi entro i confini di una sola disciplina. Gli inglesi direbbero che indosso tre cappelli: il primo è il Senseable City Lab, il laboratorio di ricerca che dirigo al MIT di Boston; il secondo è Carlo Ratti Associati, lo studio di architettura e design che ha sede a Torino, New York e Londra; il terzo il mondo delle start up, come Superpedestrian, con la quale stiamo provando a cambiare l’idea della mobilità su bicicletta. Ricerca, progetto e prodotto sono così sviluppati con una visione comune.

Quando ha capito che questa sarebbe stata la sua vita, la sua professione?

Il mio percorso scolastico è stato un po’ insolito. Al liceo, la scuola era un dovere da portare a termine per poi occuparsi di “altro”. A volte questo “altro” era in ugualmente legato alla conoscenza (la Relatività o gli incunaboli del Cinquecento) ma non faceva parte del curriculum tradizionale. Anzi, era una specie di ribellione verso l’ordine costituito. Così ho approfondito campi che uscivano dai confini canonici dell’architettura e dell’ingegneria. Dopo un po’ di anni, i vari punti sparsi hanno finalmente cominciato ad allinearsi!

Che studi ha fatto?

Ho iniziato studiando ingegneria al Politecnico di Torino e all’Ecole des Ponts di Parigi. Poi, dopo la laurea, ho virato verso l’architettura con un Master e un PhD all’Università di Cambridge. Lì mi sono occupato anche di informatica. Verso la fine del PhD mi hanno offerto una borsa di studio al MIT – dove sono rimasto fino ad oggi. 

Lei ha studiato all’estero e poi é tornato in Italia perché?

In realtà continuo a lavorare tra New York, Boston, dove dirigo il MIT Senseable City Lab, Torino, dove c’è la sede principale del nostro studio di design e innovazione e Singapore. Vivere tra queste città mi permette di guardare sempre da prospettive diverse, per poi ritrovare il piacere di tornare in Italia. Mi viene in mente Pavese, quello della “Luna e i Falò”, quando arriva in California e vede le lunghe colline sotto il sole, quasi identiche a quelle piemontesi, e si chiede: valeva la pena di aver traversato tanto mondo?

Ad un giovane consiglierebbe di studiare in Italia o all’estero?

Consiglierei di viaggiare e scoprire il più possibile nuove culture, costruendo un proprio immaginario fatto di tanti punti di vista. Le cose più interessanti accadono sempre sui confini delle cose e dei luoghi! 

Che differenze ci sono nel Design, nell’architettura in Italia e all’estero?

La differenza è già nel significato della parola: nel mondo anglosassone, con il termine “design” ci si riferisce alla progettazione, mentre in Italia sembra si debba sempre giustificare una distinzione tra il design riferito agli oggetti e l’architettura riferita agli spazi. In realtà li accomuna lo stesso approccio: reinventare il mondo che ci circonda.

Quanto è importante in questo lavoro la curiosità, l’osservare quello che ci circonda?

Moltissimo! C’è un bel film di Francois Truffaut, Jules et Jim. In una scena, Jim ricorda il consiglio di un suo professore: “Viaggi, scriva, traduca, impari a vivere dovunque, e cominci subito. L’avvenire è dei curiosi di professione.”

È cambiata l’architettura oggi e soprattutto come cambierà in seguito a quello che è successo dopo il coronavirus?

Per loro natura, le città resistono alle crisi. Nei loro diecimila anni di storia hanno affrontato pandemie peggiori di quella attuale. Pensiamo alla peste, che nel Trecento falcidiò il 60 per cento della popolazione di Venezia. Ciò non ci ha impedito, nei secoli successivi, di continuare ad affollare le sue bellissime calli e a pigiarci gli uni contro gli altri nei suoi teatri. Le nostre città non modificano facilmente la loro struttura fisica, ma si lasciano abitare in modo diverso. Si tratta di adeguare il software per preservare l’hardware. 

È possibile pensare a delle città in grado di rispondere anche a quelle che sono state delle esigenze inaspettate di questo momento?

Assolutamente si, e in qualche modo lo stanno già facendo. Il nostro modo di vivere le città è già diverso: apprezziamo molto di più le passeggiate, abbiamo rivalutato il verde e lo spazio pubblico. E ancora, il nostro modo di muoverci è cambiato così come anche i nostri comportamenti di consumo: abbiamo riscoperto i negozi di quartiere e allo stesso tempo aumentato gli acquisti online, due opzioni che sembrano poter coesistere contro ogni previsione distopica. 

Le relazioni sociali dei più giovani sono cambiate lei ipotizza degli spazi di incontro più funzionali a contrastare il coronavirus?

Dobbiamo distinguere il breve dal lungo termine. Nei prossimi mesi, fino a quando non avremo trovato un vaccino o raggiunto l’immunità di gruppo, dovremo fare attenzione e vivere lo spazio in modo diverso, mantenendo il distanziamento sociale. Ma nel lungo periodo potremo tornare a interagire in modo normale gli uni con gli altri: credo che fra qualche anno il Covid-19 non ci spaventerà più di quanto faccia la peste bubbonica di cui leggiamo ne “I Promessi Sposi”.

Lei dirige ed insegna al MIT di Boston, cosa vede nei suoi studenti e quali le caratteristiche in cui si rivede?

Credo che il tratto che li accomuna sia la curiosità, e questo si traduce nelle ricerche che si conducono e in generale in una predisposizione a sperimentare e uscire da una strada prestabilita. Inoltre, si tratta di un ambiente internazionale e multidisciplinare, in cui la diversità diventa sempre risorsa e non ostacolo.

Lei pensa che un giovane si debba formare molto più sui libri o meglio l’esperienza sul campo?

Credo che lo studio sia necessario tanto quanto l’esperienza: per dirla con le parole di Jules et Jim di cui parlavo prima, è importante viaggiare, tradurre e imparare a vivere dovunque.

Lei lavora con un gruppo di collaboratori come li sceglie e quali caratteristiche deve avere un giovane per attirare la sua attenzione e per far parte del suo team?

Sia al MIT che in Carlo Ratti Associati i nostri team sono internazionali e multidisciplinari. Sono due presupposti importanti per favorire lo scambio di idee e una continua curiosità per percorrere strade non convenzionali. In qualche modo l’approccio è fare tutto con l’entusiasmo della più straordinaria scoperta mai fatta, anche nelle cose più semplici. 

Cosa significa per lei sentirsi nominare il Leonardo da Vinci dei nostri giorni? Quando era più giovane lo avrebbe mai immaginato?

Non so chi mi abbia definito così. In generale tendo a non prendere mai troppo sul serio le etichette che mi vengono affibbiate. Al contrario, credo che sia importante fare tesoro delle parole di Steve Jobs: “Stay hungry, stay foolish”, “siate affamati, siate folli”. Affamati e folli di curiosità.

In questo lavoro è più importante la creatività o la realizzazione?

Sono due aspetti che si completano a vicenda. La creatività da sola non basta, così come il solo perseguire degli obiettivi sarebbe incompiuto senza creatività. Thomas Edison diceva che “il genio è per l’1% ispirazione e per il 99% traspirazione”. Senza traspirazione, ovvero senza impegno, l’ispirazione serve a poco.

Lei parlando di formazione ha detto che il segreto sta in una lettera T che cosa significa? 

È una teoria molto comune tra chi si occupa di risorse umane: nella formazione di una persona possiamo considerare la linea verticale della T come le competenze consolidate in una determinata area o disciplina, mentre la linea orizzontale rappresenta tutto ciò che si apprende trasversalmente al proprio ambito: sono quelle conoscenze sui confini, l'”altro” d cui parlavo prima.

Lei dice che le Università soprattutto post coronavirus dovranno cambiare, evolversi altrimenti moriranno?

L’università non morirà, ma ha oggi la possibilità di cambiare e adattarsi. Il tema dell’istruzione merita una riflessione approfondita. Per decenni le Università italiane sono rimaste ancorate ad un modello tradizionale, che le rende spesso poco flessibili ai cambiamenti. Eppure, il tempo che stiamo vivendo impone di ripensarle. Pensiamo alle grandi lezioni frontali che possono essere condotte online, liberando il tempo degli studenti, che affollano metropolitane e strade per arrivare in aula in orario, e il tempo dei docenti, che così non dovrebbero ripetere la stessa lezione.  Quel tempo ritrovato può essere utilizzato per aumentare e migliorare l’interazione individuale. Come nel Liceo ateniese di Aristotele.

C’è un progetto che ha in testa e che ancora non ha potuto realizzare?

Non vorrei sembrare schivo, ma direi: il prossimo. Progetto, dal latino projectus, significa gettarsi in avanti, nel futuro. La parte più stimolante del nostro lavoro è proprio nella ricerca e, se vogliamo, nella scoperta dell’inatteso. Lavori ad un’idea e scopri nuove prospettive, da cui nascono nuovi progetti. E i progetti di domani saranno più ricchi, portando dentro di sé un po’ di tutti quelli passati.

Con la tecnologia sono cambiate molte professioni, anche per l’architettura sarà così in futuro?

L’architettura ha dalla sua parte il grande vantaggio di essere una disciplina aperta. È un ambito flessibile per sua natura, questo le permette di resistere da sempre ai cambiamenti più profondi della storia. Pensiamo alle nostre città: hanno resistito a guerre, pandemie, rivoluzioni senza mai alterare le fondamenta della propria struttura.

Può dare tre consigli a tutti quei ragazzi che stanno per varcare la soglia del mondo dell’Università, in questo anno, diciamo particolare?

Restituirei il consiglio di Steve Jobs ai suoi studenti, che ha ispirato anche me, a mia volta: siate affamati, siate folli. Io ci aggiungo anche “Siate curiosi”. Le cose più belle accadono sui confini di ciò che già conosciamo. 

Francesca Beolchi

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