Dottorato alterato, l’inchiesta di CorriereUniv: “Il futuro della ricerca in Italia non esiste”

Dottorato di ricerca – Inutile, superato, confuso, disordinato. Benvenuti nel mondo del dottorato italiano: un universo variopinto dove precari e precarie si sfidano tra di loro in una gara di sopravvivenza in cui spesso va avanti solo chi ha le conoscenze giuste. Sono tanti i punti interrogativi che circolano nel settore: in primis una legislazione confusa che è vecchia, carente e contraddittoria. Fu nel lontano 1980 che il dottorato di ricerca venne istituito per. Un punto d’arrivo più che di partenza. Un palco da cui immergersi nel mondo del lavoro vero e proprio. Un’opportunità concreta per andare avanti con la passione della ricerca.

Peccato che il titolo di dottore di ricerca, che certifica conoscenze e abilità riconosciute dallo Stato, non sia tenuto in considerazione dalle aziende italiane, dove è ai più sconosciuto. Non va meglio nel settore pubblico: basti pensare che, in un normalissimo concorso, il titolo di dottore di ricerca non dà più diritto a un punteggio maggiore rispetto agli altri candidati, ma viene valutato a discrezione della commissione.

A rendere la situazione ancora più caotica ci si mettono le regole disomogenee che controllano il sistema dell’accesso al dottorato nel nostro paese. Fino al 1999 era possibile calcolare il numero esatto dei posti banditi da ogni università, in modo tale da monitorare l’andamento della ricerca in maniera molto più precisa. Dopo il 1999, però, ogni università decide di bandire posti con o senza borsa come desidera e quando desidera. Secondo la legge del 1998, infatti, ogni università doveva garantire il minimo del 50 % dei posti disponibili con una borsa di studio. La successiva riforma Gelmini, però, ha annullato il tetto, lasciando carta bianca agli Atenei.

All’ultimo posto    I numeri, d’altronde, parlano chiaro. L’Italia è all’ultimo posto in Europa per numero di dottorandi ogni mille abitanti, con un preoccupante 0,6 %, dietro pure alla Polonia (0,9 %) e all’Islanda (1 %). L’importo delle borse di dottorato (che in Italia arriva a 1.005 euro al mese ndr), si conferma più basso rispetto a paesi come il Portogallo (1.126 euro) e la Spagna (1.134 euro). Solo da noi in Italia, poi, il dottorando è considerato uno studente: negli altri paesi europei può essere inquadrato sia come studente sia come dipendente, o anche come dipendente stesso dell’Università. L’indagine annuale promossa dall’ADI (Associazione Dottorandi e Dottori di Ricerca Italiani) parla di 202.680.000 euro sottratti al finanziamento dei dottorati di ricerca solo negli ultimi cinque anni.

Senza regole – Ad essere sotto la lente d’ingrandimento, poi, sono soprattutto i criteri di selezione per i dottorati. L’ammissione a numero chiuso si ottiene partecipando ai bandi pubblicati sulla Gazzetta Ufficiale, a cadenza libera. Possono partecipare liberamente tutti i cittadini europei che hanno conseguito una laurea col Vecchio Ordinamento o Magistrale. La commissione giudicante è formata tipicamente da tre docenti universitari: un Presidente, un Membro e un Segretario. Ma adesso viene il bello: le prove, infatti, consistono in un elaborato scritto che può variare dal tema, dalle domande a scelte multiple fino agli esercizi. Recentemente, poi, sono stante bandite nuovi concorsi che prevedevano delle novità importanti, con la sola prova orale o – addirittura – la mera valutazione dei titoli e delle lettere di presentazione pervenute. Il concorso deve comunque obbligatoriamente rispettare le norme previste dalla legge, con il decreto 487/94 che regola i concorsi nella pubblica amministrazione.

Chi vivrà vedrà – Per gli studenti, però, entrare al dottorato è sempre più un’incognita. Molti denunciano situazioni sospette: “E’ normale – ci raccontano – che ogni professore tenda a tutelare un proprio studente. Alla Sapienza funziona spesso così”.

Mario MorcelliniNon si è fatta attendere la risposta da parte dei professori. A parlare è Mario Morcellini, professore ordinario in Sociologia dei Processi Culturali e Comunicativi presso l’Ateneo romano.“Non voglio parlare delle singole lamentele – ci ha risposto -, anche perché non ne conosco la fondatezza. Ho un’esperienza lunghissima con il sistema del dottorato in Italia e posso confermare con assoluta nettezza che si tratta del percorso più aperto e trasparente che si possa immaginare nel nostro paese. E spiego subito il perché: è interesse stesso dei docenti portare avanti una persona qualificata, e non un coglione. Quel coglione, poi, il professore dovrebbe portarselo dietro per tre o cinque anni. E’ impensabile una cosa simile. Nessuno può immaginare che ci sia un interesse da parte dei professori a restringere le candidature almeno alla prima selezione”.

Al di là delle mere contrapposizioni il dottorato rimane, in Italia, un grande punto interrogativo piuttosto che un percorso di ricerca. Rabbia, smentite e sospetti regolano un mondo che si rivela sempre più contraddittorio. E con la crisi economica, il paese sembra preso da altri problemi. La ricerca? Chi vivrà vedrà.

 

La parola ai ricercatori IL LAVORO NON PAGA E loro PROTESTANO

“Il nostro futuro non è più qui”

 

Ma qual è l’impressione di chi, il dottorato, lo ha scelto come percorso di studi,e lo sta già praticando da tempo? Abbiamo ascoltato il parere di una giovane ricercatrice che studia a Parigi proprio grazie al suo dottorato. “Attualmente mi trovo in Francia e posso dire con assoluta certezza che qui la situazione del dottorato è completamente diversa. Il problema principale di oggi, in Italia, è sicuramente la scarsa dotazione economica di cui godono i dipartimenti e, di conseguenza, si tende a sacrificare le attività che i singoli dottorandi potrebbero svolgere (summer school, scuole di specializzazione). La modalità di accesso è basata su un pubblico concorso quindi non penso che ci siano “particolari” differenze rispetto ad un qualunque altro concorso. Posso assicurare che, finito il dottorato, l’incertezza regna sovrana (io non ho ancora finito ma mi preparo ad affrontare la situazione ed i mesi a pane e acqua che verranno). Mantenersi senza avere uno stipendio o una borsa e continuare a fare ricerca è veramente difficile. Se già adesso per andare ai convegni devo rinunciare alle vacanze nonostante io abbia una borsa di studio figuriamoci le difficoltà di chi lavora senza stipendio per mesi. E se i ricercatori non ricercano per motivi economici…alla fine saranno veramente in pochi a continuare a fare questo mestiere. Credo che l’Italia sia uno dei pochi paesi in cui l’eccellenza nella ricerca non viene premiata…e i dati sulla fuga dei cervelli lo confermano. Sinceramente non escludo la possibilità di trasferirmi definitivamente in Francia”.

E in Italia? Ecco la testimonianza di un’altra ricercatrice, che fa chiarezza sui metodi di selezione. “La selezione è stata per concorso, per titoli e colloquio. In sede di esame paradossalmente era più avvantaggiato chi non si era laureato da poco ma aveva avuto altre esperienze in ricerca, perché le suddette facevano punteggio. Ovviamente eravamo più candidati dei posti disponibili e io, personalmente, se fossi rientrata senza borsa non credo che avrei proseguito oltre. L’esame oltre ai titoli si componeva di domande con questo meccanismo. Ci sono delle buste chiuse e sigillate, il candidato ne sceglie una e all’interno ci sono tre domande, una per ogni area tematica suddetta. E’ ovvio che ogni candidato ha già una “preferenza a priori” dell’area tematica che sceglie”.

Scorrettezze? Secondo quanto raccontato dalla ricercatrice, non c’è ombra di favoritismi. “Lo svolgimento a me è parso sicuramente cristallino, senza sospetti. E’ ovvio, la maggior parte della commissione conosce già i candidati, se non altro perché il nostro corso di laurea non è particolarmente affollato, sono stati quasi tutti nostri docenti, e stare 12 mesi in un istituto almeno di faccia ti conosci per forza. ma sotto questo punto di vista vale per tutti, eravamo tutti “pari” perché, almeno quell’anno, non c’erano esterni. Poi una prova di lingua inglese. E fortunatamente sono rientrati tra i vincitori di borsa”.

Non sempre, però, va tutto liscio. “In altri anni – continua la ricercatrice – ci sono stati anche candidati per così dire esterni che a volte sono rientrati nelle graduatorie, a volte no…

Un commento, poi, sulla qualità del dottorato svolto. “Mi hanno fatto fare tutte le esperienze possibili e disponibili (vista la situazione finanziaria degli Atenei); al momento mi trovo in Svizzera per un periodo di esperienza qui, promosso dal mio tutor in collaborazione con un gruppo di ricerca svizzero. La loro idea è che il dottorato debba formare, è uno spazio privilegiato in cui una persona è ancora studente, ma lanciato verso un percorso di autonomia, e davvero nessuno dei professori e ricercatori del gruppo fa mai mancare il suo supporto ai dottorandi. Visto quello che si sente in giro, mi reputo fortunata”.

Le cose, comunque, vanno messe in chiaro sin dal primo istante. “Il mio tutor fu chiaro fin da subito “se una volta il dottorato era l’ingresso alla carriera accademica ora non è più così, e molto probabilmente per voi sarà solo un modo per entrate nel mondo del lavoro con tre anni di ritardo”; non è un caso se al momento è difficile trovare persone che vogliano fare un dottorato, e negli anni, i concorsi si fanno sempre meno affollati, tanto che quest’anno c’erano meno candidati che posti (con e senza borsa) disponibili!”.

Per finire, uno sguardo al futuro. “Anche per me, come per altri, il futuro è all’estero (qui in Svizzera, per esempio, c’è davvero posto per tutti quelli che siano un minimo bravi). Il futuro della ricerca italiana semplicemente non esiste. Basta mettere piede fuori confine per rendersi conto come la ricerca sia considerata una risorsa che gode di investimenti pubblici e privati, che vige la regola “tanto spendi e tanto appendi”, che si rischia, si investe sui giovani, sui progetti quasi visionari a volte, ma se non si rischia non si scopre nulla. In Italia siamo mummificati”.

 

dottorato di ricerca 2IL PARERE DEL PROF Con una situazione simile è meglio scegliere realtà di qualità oltreconfine

“Il dottorato? Meglio all’estero”

Non poteva mancare, in una situazione tanto spinosa, il parere degli stessi professori: “L’università di massa schiaccia verso il basso il valore della laurea e spinge la selezione verso l’alto – ci ha raccontato Lorenzo Scheggi Merlini, professore di Nozioni di Linguaggio Giornalistico presso l’Università Roma Tre. La laurea triennale ormai è considerata quasi come il liceo, e non vale niente o quasi nella formazione di un curriculum con ambizioni professionali di alto livello. Così la specialistica è diventata la base di partenza dalla quale si può solo salire, e il 110, 110 e lode sono il minimo indispensabile. In questa logica ne consegue che il dottorato diventa un gradino necessario per avere una qualificazione rilevante.

A cosa serve, quindi, il dottorato nella situazione attuale?

“Molto dipende, però, di quale laurea stiamo parlando. Il dottorato è indispensabile in Medicina, Ingegneria, Fisica eccetera: certo serve a poco in corsi di laurea come Scienze della Comunicazione, Sociologia, Psicologia. Più le lauree sono professionalizzanti e più è indispensabile. Altrimenti il dottorato serve relativamente, Se dottorato deve essere, deve allora essere molto, molto qualificato. come prestigio della sede, dei docenti, della considerazione di chi deve valutare il personale da inserire fra i propri quadri”.

Vale la pena intraprendere il percorso di dottorato in Italia?

“In questa ottica credo che, preferibilmente, dovrebbe essere conseguito all’estero, come ampliamento dell’esperienza, occasione di perfezionamento delle lingue e delle culture diverse. occasione per tessere una rete di rapporti personali che si dimostreranno utilissimi negli sviluppi della carriera lavorativa”.

 

 

Il presidente dell’ADI racconta la situazione allarmante della ricerca in Italia

Francesco Vitucci: “E’ un fallimentosociale ma dobbiamo ripartire”

 

dottorato di ricerca 1A chiarire la questione sui criteri di selezione “sospetti” e sul mondo della ricerca italiana ci pensa Francesco Vitucci, segretario nazionale dell’Adi (Associazione Dottorandi e Dottori di Ricerca Italiani): “Credo si debba fare subito una distinzione fondamentale per quanto riguarda il tema dei criteri di selezione: da una parte, infatti, siamo di fronte all’omogeneità delle tecniche, dall’altra parliamo di oggettività. Ecco, per quanto riguarda l’omogeneità devo dire che mi sembra ragionevole che il sistema adotti modalità di selezione diverse di fronte a materie che sono molto differenti tra loro (parliamo ad esempio di un dottorato in fisica e uno in filologia). L’omogeneità può essere raggiunta magari quando ci troviamo di fronte a dottorati simili per aree tematiche e metodi di studio.

Per quanto riguarda la valutazione oggettiva, invece, ritengo sia una chimera nel panorama universitario italiano. Parliamoci chiaro: dobbiamo smetterla di sperare in una valutazione oggettiva: la valutazione resta sempre soggettiva rispetto a chi la fa. Dal mio punto di vista, però, sposterei la questione su un altro punto: non è sulla modalità che si gioca la valutazione della qualità, ma sulla “malapolitica” e malafede che tende a far avanzare chi non lo merita”.

L’associazione condanna con forza l’utilizzo pretestuale di metodi inopportuni per selezionare studenti in base a giochi di potere. “Abbiamo ricevuto diverse segnalazioni da parte di studenti che denunciavano episodi sospetti durante il dottorato – continua Vitucci. Va detto, però, che come associazione cerchiamo di tutelare questioni sociali che riguardano più soggetti coinvolti. Proprio in questi mesi, ad esempio, siamo intervenuti a sostegno del ricorso contro la normativa nazionale che non riconosceva gli anni di servizio agli insegnanti della terza fascia. Nei casi specifici cerchiamo di dare più che altro un sostegno allo studente, con informazioni sulle normative e sulla fattibilità dei dottorandi, anche perché è compito di istituzioni come la magistratura indagare di fronte a situazioni sospette.

Il dato più allarmante, però, riguarda il numero degli assegnisti di ricerca che non proseguirà il suo lavoro nelle università: secondo l’ultima indagine annuale pubblicata siamo al 93 %. Una cifra spaventosa. “Va detto, in primis, – commenta ancora Vitucci – che questo dato è stato calcolato in maniera ottimistica. Oggi, sappiamo che in pratica solo l’1 % dei precari ha la concreta possibilità di proseguire il proprio percorso professionale nell’università. Il punto, però, è un altro: qui non siamo di fronte un concorso con 30 mila aspiranti avvocati per mille posti: in casi come questi le persone in questione già offrono il loro lavoro all’università che le sfrutta e non offre loro la possibilità di un inserimento stabile”.

E il futuro della ricerca? Vitucci ha le idee molto chiare. “Come Paese ritengo che stiamo scoraggiando gli studenti e incentivando la fuga dalle università. Penso che qualcuno, magari tra pochi anni, sceglierà qualcos’altro di fronte alla possibilità di un percorso universitario da intraprendere. È un fallimento sociale che riguarda l’istituzione stessa e l’intero Paese, non certo i soli precari.

Il punto di vista di chi – come me – è all’intero del sistema forse è ancora peggiore. Il modello universitario italiano è un tritacarne ancora più feroce rispetto agli stessi privati. Le faccio solo un esempio: gli altri precari che lavorano per i privati hanno dei contratti di collaborazione con diverse tutele in più rispetto al mondo universitario”.

Ma ne vale ancora la pena? “Penso di sì,  – risponde Vitucci -. Penso sia giusto ancora provarci. Anzi, sono dell’idea che si stia mettendo in moto un meccanismo che possa cambiare la situazione. Anche perché – diciamocelo francamente – peggio di così non si può andare. Se c’è un vero impegno della politica si può contribuire davvero a risollevare quella che è la situazione della ricerca in Italia”.

Raffaele Nappi

 

 

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