Immunoterapia: sempre più giorni aggiunti alla vita

La Repubblica
Il 16% dei malati al polmone è ancora vivo a cinque anni dalla diagnosi. Lo stesso per il 64% delle persone colpite da melanoma dopo due. Risultati mai visti. Dal congresso dell’American Cancer Research arrivano buone notizie. E gli italiani sono protagonisti
Ci hanno abituato a risultati mai visti, salvando molti pazienti oncologici che prima non avevano chance. Anche nel caso di tumori difficili da trattare e in stadio avanzato, svegliare il sistema immunitario per combattere il cancro ha consentito di aumentare la sopravvivenza, giorni e mesi preziosi aggiunti alla vita. Ma oggi i farmaci immunologici danno una nuova speranza, quella di un’azione che si mantiene nel tempo. Gli studi che lo dimostrano sono stati presentati al congresso dell’American Association for Cancer Research in corso a Washington: ricerche ancora in fase precoce, ma che stanno puntando lontano, a cinque anni dall’inizio del trattamento, e che riguardano uno dei tumori più difficili da trattare e più diffusi, quello al polmone (41 mila nuovi casi nel 2016).
Per la prima volta anche per questa neoplasia si può parlare di sopravvivenza a lungo termine: il 16% dei pazienti in stadio avanzato trattati con la molecola immunotarapica nivolumab è infatti ancora vivo a cinque anni dalla diagnosi. Una percentuale bassa, è vero, ma significativa: “Le percentuali di sopravvivenza a cinque anni nei pazienti con tumore al polmone storicamente non superavano il 5%, nivolumab le ha triplicate”, spiega Michele Maio, direttore di Immunoterapia Oncologica e del Centro di Immuno-Oncologia del Policlinico Santa Maria alle Scotte di Siena.
I dati. Lo studio che ha riportato questi risultati ha coinvolto 129 pazienti con tumore del polmone non a piccole cellule avanzato (sia di tipo squamoso che non squamoso), tutti già trattati con le terapie disponibili. “Sebbene lo studio sia di fase 1 (iniziale, ndr.), siamo di fronte a un risultato importantissimo e a un cambiamento epocale – continua Maio – perché è il primo vero passo in avanti negli ultimi venti anni in questa malattia. Ben il 60-70% dei casi viene diagnosticato in fase avanzata e finora l’unica arma disponibile era rappresentata dalla chemioterapia, poco efficace e molto tossica. I farmaci a bersaglio molecolare, infatti, funzionano solo nei pochi casi che presentano specifiche mutazioni genetiche. Considerando la tendenza osservata in precedenti studi con farmaci immuno-oncologici, in particolare nel melanoma, è probabile che queste percentuali si mantengano anche negli anni successivi e che quindi si possa in futuro parlare di pazienti vivi a dieci anni anche per una patologia fino a oggi a prognosi invariabilmente infausta”.
Nivolumab è un farmaco già utilizzato nel tumore del polmone squamoso e non squamoso, oltre che nel carcinoma a cellule renali avanzato e nel melanoma metastatico. Se immaginiamo il sistema immunitario come un’automobile, la sua azione è quella di sbloccare uno dei “freni” che le impediscono di mettersi in moto contro il tumore, la proteina PD-1.
Testando le combinazioni. I risultati potrebbero essere ancora migliori combinando immunoterapie che sfruttano meccanismi diversi. Lo dimostra un altro studio (CheckMate – 067, di fase III) presentato al congresso dell’AACR, condotto su 945 pazienti con melanoma metastatico, che non erano stati trattati in precedenza. I tassi di sopravvivenza a due anni con la combinazione di nivolumab e di ipilimumab (la prima molecola immuno-oncologica approvata) hanno raggiunto il 64%, rispetto al 59% con il solo nivolumab e al 45% con il solo ipilimumab. “Questi risultati sono rilevanti soprattutto per i pazienti colpiti dalla patologia in forma aggressiva, per i quali è importante disporre di una terapia che offra risposte immediate”, spiega Paolo Ascierto, direttore dell’Unità di Oncologia Melanoma, Immunoterapia Oncologica e Terapie Innovative dell’Istituto Nazionale Tumori Fondazione ‘G. Pascale’ di Napoli. Sia l’Istituto Pascale sia il Centro di Immuno-Oncologia del Policlinico Santa Maria alle Scotte di Siena hanno partecipato alla ricerca. “Parliamo di persone che prima del 2011, quando è arrivato il farmaco immunoterapico ipilimumab, sopravvivevano in media 6-9 mesi – continua Ascierto – e soltanto il 25% era ancora vivo a un anno della diagnosi. Oggi, con ipilimumab guariscono due pazienti su 10 e con la combinazione il 64% è vivo dopo due anni. È un dato incredibile, che fa ben sperare”. Ipilimumab sblocca un freno del sistema immunitario diverso da quello su cui agisce nivolumab (chiamato CTLA-4): era quindi probabile che combinandoli si ottenessero risultati migliori di quelli osservati con le singole terapie. E il nuovo studio lo ha dimostrato: “Sebbene non fosse disegnato per comparare il gruppo trattato con la combinazione e quello trattato con il solo nivolumab – continua Ascierto – un’analisi esplorativa ha mostrato una riduzione del rischio di morte del 12% del primo regime rispetto al secondo. Non solo: la combinazione ha portato a una maggiore riduzione del tumore e le risposte sono state più veloci e più durature. Il tasso di risposta obiettiva (misurabile attraverso questi parametri, ndr.) è stato del 58,9% con la combinazione, rispetto al 44,65% ottenuto con nivolumab e al 19% con ipilimumab in monoterapia”. Sono numeri importanti per tutti coloro – e sono soprattutto giovani – che ricevono una diagnosi di melanoma: nel 2016 ci sono stati 13.800 nuovi casi, un’incidenza che preoccupa, perché quasi raddoppiata rispetto a dieci anni fa.
La Repubblica

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