E’ una delle misure di rilancio dell’università italia che tanto vanto aveva portato nel Governo. L’aumnto del turnover, appunto, oltre il cento per cento come previsto dalla legge di Bilancio 2019. Finalmente da quest’anno le università – con i conti a posto – potranno tornare ad assumere più professori e ricercatori di quelli che vanno in pensione. Una prima inversione di tendenza dopo l’emorragia degli ultimi dieci anni (dal 2008 al 2017 il sistema dell’istruzione superiore ha bruciato 10 mila docenti sui 63 mila di partenza). «E’ una svolta, dobbiamo tornare ad assumere di più nelle università», aveva annunciato Marco Bussetti commentando le misure varate nel dicembre scorso. Ma nella stessa legge di Bilancio in cui il governo libera finalmente gli atenei da ogni vincolo nelle assunzioni è contenuta una norma che li lega con una catena il cui nome è tutto un programma: calcolo del fabbisogno finanziario.
Come riportato dal Corriere della Sera, a lanciare l’allarme nei giorni scorsi è stato il CUN, il «parlamento» dei docenti universitari che ha la funzione di organo consultivo del Miur. In una mozione firmata dalla presidente Carla Barbati e indirizzata al ministro Bussetti, al vice ministro Fioramonti, ai capi di gabinetto Valditara e Chinè, si sottolinea come nella finanziaria licenziata a dicembre dal Parlamento si vincolino gli atenei a nuove norme di sostenibilità ancor più severe di quelle precedenti. Mentre finora il fabbisogno degli atenei era calcolato sulla base di quello dell’anno prima più il 3%, per il periodo dal 2019 al 2025 le università statali avranno diritto a un incremento massimo pari al tasso di crescita reale del Pil nel DEF. Insomma i soldi ci sono ma solo virtualmente. «Il sistema potrebbe anche funzionare se crescessimo di diversi punti percentuali – commenta il professor Giacomo Manetti, docente di Economia Aziendale all’Università di Firenze e relatore del documento CUN -, ma con tassi di crescita come quelli attuali, che al netto dell’inflazione superano di poco lo zero virgola, non riusciamo neanche a coprire gli aumenti degli stipendi se si ipotizza di utilizzare tutto il turnover concesso dal Ministero». E – si badi – su questa regola aurea non sono ammessi sforamenti come quelli che il governo giallo-verde invece reclama a gran voce sui vincoli imposti dai trattati di Maastricht. Per gli atenei disobbedienti la legge di Bilancio prevede non più solo la segnalazione al Mef ma «penalizzazioni economiche commisurate allo scostamento registrato».
Oltre il danno anche la beffa. Paradossalmente il cacolo finisce per penalizzare proprio le università che finora hanno investito di più. Come mai? Il CUN argomenta che la legge di Bilancio prevede di calcolare il fabbisogno programmato per l’anno in corso in base a quello dell’anno precedente decurtato però dalla media delle spese in investimenti dell’ultimo triennio. Questo vuol dire, soprattutto per le università che più si sono adoperate in questa direzione, ridurre in modo consistente la base di partenza su cui poi viene applicato l’aumento in base al tasso di crescita reale del Pil. Il CUN riconosce che l’idea di svincolare le spese per sviluppo e ricerca da quelle correnti in teoria sarebbe giusta ma nei fatti si traduce in un autogol a causa della forte limitazione alla parte rimanente della spesa corrente.
Uno scenario che dovrà fare i conti anche con lo sblocco degli stipendi (che d’ora in poi saranno soggetti ad adeguamento Istat), degli scatti ogni due anni anziché tre, dei piani straordinari di reclutamento dei ricercatori e dei cosiddetti Dipartimenti di Eccellenza. «A fronte di tali maggiori uscite in gran parte automatiche – si legge nel documento del CUN – la nuova disciplina del fabbisogno finanziario imporrà a un numero crescente di Università pubbliche una restrizione alla parte restante della spesa o la necessità di incrementare le entrate proprie per evitare il superamento del limite ministeriale. Le azioni di contenimento della spesa corrente potrebbero addirittura indurre auto-limitazioni del turnover, vanificando di fatto l’ampliamento delle facoltà assunzionali voluto dal legislatore».
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