Un’impresa su tre che nel 2020 ha attivato lo smart working a causa della pandemia è pronta a confermare il lavoro da casa che alla fine dell’emergenza Coronavirus. E’ quanto emerge da uno studio condotto dal Centro studi di Confindustria e pubblicato oggi dal Sole 24 Ore.
Smart working
Un dato che , di fatto, sembra dividere in due l’orientamento nei confronti del lavoro agile: da una parte il settore pubblico con il ministro Brunetta che già da tempo sta portando avanti la sua personalissima “crociata” con lo smart working imponendo il rientro in ufficio nonostante l’andamento dei contagi da Covid continui a preoccupare, e dall’altro il settore privato che invece continua ad avere un occhio di riguardo verso uno strumento che, soprattutto in un momento di emergenza, ha contribuito a limitare i danni.
Lo studio
Secondo i dati del Centro studi di Confindustria nel 2020 in media due imprese associate su tre hanno fatto ricorso allo smart working, modalità che ha coinvolto quasi il 40% dei dipendenti. Nei servizi lo hanno utilizzato il 73,4% delle imprese, nell’industria al netto costruzioni il 61,6. Una formula agile che il mondo imprenditoriale, dice il Csc, ha dimostrato di voler utilizzare ancora, come ha risposto il 34,2% degli intervistati, con un dato più alto nei servizi (41,1) rispetto a quello dell’industria in senso stretto (31,1).
Ovviamente non si tratta, come qualcuno potrebbe pensare, di uno smart working “selvaggio”, anzi. Confindustria ha imposto ai suoi associati regole più o meno certe proprio per cercare di regolamentare uno strumento che prima della pandemia era utilizzato da pochissime persone e che, in qualche caso, era visto come una sorta di “vacanza dal lavoro”.
Ecco perché tra le esigenze chieste dalle aziende nell’indagine del Csc c’è al primo posto la necessità di stabilire in determinati giorni la presenza in azienda (56,6%) seguita dal fornire attrezzature adeguate per il lavoro a distanza (39,5%), la riorganizzazione degli spazi negli uffici (28,8%) dare ai dipendenti competenze tecniche digitali (23,8) e trasversali (26,1) per cento. Inoltre un’impresa su cinque ha dichiarato di dover investire per formare i manager nelle competenze trasversali.
Resta anche il tema, dice la nota del Csc, che “il lavoro agile comporta anche rischi legati a barriere o ritardi tecnologici, al mantenimento di una adeguata work-life balance, alla necessità di strategie manageriali e gestione del personale adeguate, tali da garantire un buon flusso di informazione e una ripartizione adeguata dei carichi di lavoro”.
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