Per competere nell’economia della conoscenza, che è fatta di idee, innovazione e scienza, l’Italia deve ripensare profondamente il suo sistema universitario e di ricerca, puntando “su 3 o 4, al massimo 5 università di eccellenza”, sostiene Roger Abravanel sul Corriere della Sera. “A noi italiani questa idea non piace, ma solo l’eccellenza crea ricchezza”, spiega. “Le università di eccellenza fanno ricerca e insegnamento, le altre preparano al lavoro, ma a molti docenti non piace. Vuol dire saper insegnare skills per la vita”. Perché “la meritocrazia di massa è finita” e la pandemia ha accelerato questa tendenza.
“Stanford ha creato 40 mila aziende e 3 trilioni di valore. Negli ultimi 25 anni è esploso il rapporto tra università di eccellenza e grandi corporation. La pandemia ha accelerato una tendenza già in atto”, dice Abravanel. In Italia? Il politecnico di Milano, guidato da Ferruccio Resta, padrone di casa del dibattito in streaming, è la migliore università in Italia, eppure resta molto indietro nel mondo. E il ranking è importante per attrarre i migliori ricercatori e studenti. “Dietro il successo di Nexi, azienda leader dei pagamenti digitali, cresciuta nell’economia della conoscenza? Scala, tecnologia e competenze”, sostiene Paolo Bertoluzzo, che in 4 anni ha “assunto 500 persone con competenze nuove”. L’alunna Elena Bottinelli, cita il caso del San Raffaele, ospedale privato che dirige insieme al Galeazzi: “Ha avuto la grande capacità di creare un ecosistema favorevole per accelerare la crescita, puntando su ricercatori di altissimo livello e clinici di eccellenza, inseriti in un ambiente universitario propizio. Il risultato in un anno difficile come questo sono due startup sulla terapia genica”. Alberto Sangiovanni Vincitelli, docente a Berkeley dal ‘75, ha co-fondato due aziende che “sul Nasdaq capitalizzano 80 miliardi contro i 43 miliardi di Fca e Psa insieme”, dice. “Per creare eccellenza serve ricerca insieme a insegnamento. Nelle top university non si bada a spese per avere i migliori”.
E’ una delle ragioni per cui, secondo Abravanel, le università eccellenti rinunciano al finanziamento pubblico, preferendo l’autogestione. Perfino la pubblica Berkeley riceve solo il 14% dei fondi dallo Stato “In Italia siamo molto indietro. In parte è colpa dei mancati investimenti privati, ma le nostre università hanno responsabilità pesantissime”, ribadisce. Addossando “molta colpa” ai professori, che “rifiutano le valutazioni o non vogliono i corsi in inglese, 200 anche al Politecnico”.