“Il 2009 è l’annus horribilis”. A scriverlo è il Financial Times, e non è certo la prima volta che lo afferma. Stavolta, però, argomenta quest’assunto partendo da una classifica. È stato incasellando i nomi delle Business School mondiali nel suo ranking dei ranking, infatti, che il quotidiano finanziario più importante d’Europa è giunto ad apporre ancora una volta la casacca nera all’anno che sta, finalmente, finendo.
Certo è che il comparto delle Business School d’alto lignaggio era ed è tutt’ora in profondo stato d’agitazione. Lampada fissa puntata negli occhi, è uno dei principali indagati per la catastrofe mondiale della crisi globale. Capo d’accusa: aver formato i manager che ci hanno condotto nel baratro planetario. Ebbene, è un comparto che perde credibilità. “Stagnazione nel numero degli iscritti” si legge nell’articolo di presentazione della classifica. Anche se non tutto il mondo è paese.
L’Europa, tutto sommato, è quella che sta meglio, vuoi per programmi più corti, vuoi per la maggior diffusione degli istituti. Ma quali i collegamenti tra la crisi mondiale e la decadenza delle Business School? Vi sono due link rilevanti (così come descritti sempre dal Financial).
Primo: i salari. In questo tempo di magra nera le aziende abbattono le remunerazioni. Quindi, i loro quadri top class stanno perdendo potere attrattivo. Secondo: quelle medesime aziende non investono più in formazione come un tempo. Producendo crisi.
“Una crisi ravvisabile – si legge sempre sul FT – nella staticità della classifica”. Nella top ten non ci sono infatti movimenti di rilievo rispetto allo scorso anno. E soltanto 7 sono le new entry su 70, tra cui una (56esima) è la School of Management del Politecnico di Milano che, insieme all’SDA della Bocconi (24°), compone la minipattuglia tricolore in classifica. Insomma: anche i ricchi piangono. E poco importa se la loro ricchezza è, come l’alta scienza economica, completamente immateriale.
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