Si chiama Mimmo Dattilo il professore che a 65 anni è arrivato al suo cinquantesimo anno di permanenza al liceo artistico Cottini di Torino, prima come studente, poi come insegnante di scultura. Era il 1967 quando, da giovane studente, entrò per la prima volta nella sua scuola, non sapeva che da lì non se ne sarebbe più andato. Ha visto passare 30 ministri dell’istruzione e le loro riforme, visto cambiare due sedi alla sua scuola, prima all’Accademia di Belle Arti e poi a Mirafiori. Sempre lì, prima come assistente e poi come docente di ruolo: la pensione coincide con i 50 anni di liceo, un record.
I colleghi lo festeggeranno con una targa, in video e perfino un balletto. Quando entrò all’artistico “i figli degli operai come me erano pochi, il ’68 cambiò tutto”. Lui che dovette lottare contro la volontà del padre che lo voleva ragioniere, che fu bocciato in seconda perché c’erano i cortei a cui partecipare: “Noi dell’artistico che sapevamo disegnare ci occupavamo dei manifesti”. Entrò come assistente dietro richiesta di un suo professore, una figura che ora non esiste più. Un procedimento molto più naturale degli attuali concorsi. E sempre tra i banchi ha conosciuto sua moglie Annamaria, artista della porcellana.
In mezzo secolo ha visto la scuola cambiare. “Quando sono entrato non c’erano inglese e filosofia – spiega – è diventato più liceo e meno artistico”. Poi ci sono le problematiche che hanno messo in ginocchio l’istituzione: “La scuola ha meno risorse. I governi non dovrebbero mai portare i docenti a scendere in piazza, è umiliante”. Nei suoi ricordi i professori erano spesso su un piedistallo. “Non sono per intimorire i ragazzi, se c’è paura non tirano fuori la creatività. Anche se oggi – sottolinea – i ragazzi mi sembrano meno affamati di noi, forse per i troppi stimoli”. Tra i colleghi ha avuto artisti come Casorati, Tabusso, Carena. Doveva andare in pensione nel 2012 ma fu “incastrato” dalla Fornero. Dattilo non esita a definire la scuola una dipendenza: “Mi sento come una mia studentessa che, appena finito l’orale di maturità, si gira e mi dice: ‘Ora che faccio?'”.
Da un articolo di Fabrizio Assandri sulla Stampa
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