«Se il valore della laurea sarà diverso a seconda delle università, dove passeranno le differenze e queste come si misureranno? Propongono la brutta copia del modello americano. Considero una boutade la media del voto dei singoli atenei come indice di serietà», questo il primo commento del rettore di Roma Tre, Mario Panizza, alla notizia dell’emendamento che attribuisce nei concorsi pubblici un peso all’ateneo di provenienza.
«Le università, nel modello americano, sono tra loro in una competizione esplicita e lo studente, o meglio la famiglia che decide d’investire sulla formazione del figlio, valuta il rapporto ottimale tra costi e benefici. Le tasse, comunque molto alte, sono rapportate alla lungimiranza di chi reinveste in contratti differenziati dei professori e nella dotazione delle attrezzature dei laboratori per la sperimentazione. La ricerca del prestigio è dichiarata e ogni Università può decidere la sua classifica in base alle risorse di cui dispone», spiega il professor Panizza, a capo di un “ateneo emergente”, tra i primi 100 al mondo nella classifica “Timer Higher Education 100 under 50” riguardante le università in crescita con meno di 50 anni. «Da noi la situazione è del tutto diversa. Ogni fattore che partecipa alla caratterizzazione degli atenei tende a comprimere le differenze: le tasse sono simili; la dotazione finanziaria più cospicua viene dallo Stato e quindi segue criteri di equità; i professori percepiscono stipendi unificati e soprattutto sono selezionati attraverso valutazioni “garantite” a livello nazionale, proprio per assicurare a tutti gli studenti di avere docenti con competenze standardizzate da mediane prestabilite.
Il giudizio sul valore dell’ateneo è pertanto un “passaparola” più o meno controllato e guidato che, per risultare “oggettivo”, assume alcuni parametri la cui attendibilità è affidata, anche qui in via soggettiva, al credito della fonte dell’informazione.
Insomma, garantire contemporaneamente libera competizione e valore del titolo di studio uguale per tutti è un esercizio puramente ideologico che può servire solo a ingigantire il disordine, già alto, all’interno degli atenei italiani.
La riforma Gelmini ha definito l’Università come un giocattolo troppo costoso, ora con l’emendamento ai concorsi per la Pubblica Amministrazione passerebbe la logica che alcuni giocattoli sarebbero anche pericolosi per la salute, non avrebbero il marchio della Commissione di vigilanza e sarebbe declassato il titolo di studio conseguito al loro interno.
Mi preoccupa molto la congiuntura, abbastanza evidenziata, del calo delle immatricolazioni, soprattutto negli atenei del Sud Italia, che risentono più degli altri della crisi dell’offerta di lavoro. Non vorrei che anche questo diventasse un parametro semplicistico per distinguere i buoni dai cattivi, dai quali è bene tenersi alla larga».
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