Una catena di suicidi inspiegabili sta sconvolgendo la quiete dell’università di Bristol, uno degli atenei più prestigiosi d’Inghilterra. Ieri il settimo allievo in 16 mesi si è tolto la vita: si trattava di Justin Cheng, uno studente dell’ultimo anno in legge originario di Toronto. Sua sorella Tiffany ne ha annunciato la morte su Facebook: «Mio fratello soffriva di una grave depressione che alla fine ha condotto al suo decesso», ha scritto. L’ateneo inglese è uno dei più quotati oltre Manica dagli studente (al 50esimo posto nel mondo), ma negli ultimi mesi sta acquistando anche una sinistra fama.
Già nell’ottobre 2016 una studentessa appena 19 anni, Miranda Williams, si tolse la vita con un cocktail di farmaci. E pochi giorni dopo Daniel Green, diciottenne al primo anno di storia venne trovato impiccato. La stessa cosa accade a Kim Long, studente di legge, morto di asfissia nella sua residenza. Mentre a gennaio 2017 la ventitreenne Lara Nosiru, all’ultimo anno di neuroscienze, viene trovata morta: suicidio dicono i medici. E impiccati vengono ritrovati anche James Thmpson, ventenne al secondo anno di matematica, e Elsa Scaburri, ventunenne del terzo anno di lingue, rispettivamente ad ottobre e marzo.
L’università di Bristol ha di recente rivisto i suoi servizi di assistenza agli studenti e ha speso un milione di sterline in consiglieri per il benessere, oltre ad assumere un team di 28 psicologi. Ma evidentemente tutto ciò non è bastato. Va detto che negli ultimi cinque anni le università inglesi hanno assistito a una crescita del 50 per cento delle richieste di assistenza psicologica da parte degli studenti. Il sistema britannico è altamente competitivo e l’aumento delle rette a 9.250 sterline (oltre diecimila euro) ha esacerbato il problema: gli studenti finiscono gli studi gravati da debiti fino a 50 mila sterline che debbono ripagare una volta trovato lavoro: diventa quindi imperativo eccellere negli studi per avere la garanzia di un impiego ben remunerato. La pressione è estrema e in tanti non reggono.
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