Stati Uniti, stretta sugli studenti stranieri: revocati 525 visti. Rubio: “Restare non è un diritto”

Studenti senza cittadinanza italiana
Immagine di StockSnap da Pixabay

“Visitare gli Stati Uniti non è un diritto, ma un privilegio esteso a tutti coloro che rispettano le nostre leggi e i nostri valori”, sono le parole con cui Marco Rubio, segretario di Stato americano, si è rivolto, in diretta sull’emitte Fox News, agli studenti stranieri che frequentano le università negli USA. Secondo varie associazioni studentesche americane dal giorno dell’insediamento di Donald Trump è stato revocato il visto di ingresso a 525 tra studenti e ricercatori distribuiti in circa 80 atenei del Paese. Molte le segnalazioni arrivate da prestigiose università come Harvard o Stanford ma anche atenei pubblici come la University of California.

L’impressione è che il numero di visti revocati sia destinato a crescere rapidamente. Il motivo? La politicizzazione. L’amministrazione Trump sta presentando queste operazioni come la dimostrazione concreta della nuova linea dura sull’immigrazione. Gli Stati Uniti ospitano più di 1,5 milioni di studenti stranieri con visto. Più circa 300 mila studenti che partecipano a forme di scambio e di collaborazione culturale.

Studenti stranieri negli Stati Uniti e il caso Khalil

L’apertura dei corsi degli atenei americani a studenti che arrivano da ogni parte del mondo è stata una forte distinzione degli USA nei decenni passati, come arabi e asiatici, e nel tempo si è dimostrata una carta vincente per affermare il primato americano nei campi della ricerca scientifica e nell’innovazione tecnologica. Ora, però, Rubio e la segretaria per la sicurezza nazionale, Kristi Noem, avvertono: agli studenti che commettono qualsiasi reato, anche un’infrazone del codice stradale, verrà ritirato il permesso di studio.

Tutto è iniziato con le proteste contro Israele e pro Palestina dei campus come quello della Columbia University di New York. Uno dei leader, Mahmoud Khalil, attivista pro Palestina, è stato prelevato da agenti in borghese all’ingresso del palazzo dove abita con la sua compagna perché “non avrebbe inserito nella sua Green Card di aver lavorato per l’Unrwa” l’agenzia dell’Onu per i rifugiati palestinesi, accusata di antisemitismo dalle autorità americane e da Israele. Proprio in quell’occasione il segretario americano disse che i giovani stranieri erano accolti negli USA “per studiare” e non per contestare la politica estera dell’amministrazione a stelle e strisce.

Intanto più di 1,7 milionidi americani hanno firmato una petizione per chiedere la liberazione di Khalil, ma l’11 aprile un giudice federale della Louisiana, dov’è detenuto, ha accolto la richiesta dell’amministrazione Trump. L’attivista, 30 anni, nato in un campo profughi siriano, verrà espulso. Dopo di lui, le associazioni per i diritti umani temono che sarà la volta di Rumeysa Ozturk, cittadina turca, iscritta alla Tufts University a Boston. La studentessa aveva da poco pubblicato un articolo contro l’occupazione israelianadi Gaza in un giornale universitario.

La fuga dei ricercatori dagli Stati Uniti

Negli Stati Uniti, la crisi della ricerca scientifica non è più un’ipotesi, bensì una realtà, come denunciato dagli stessi ricercatori. Esperimenti interrotti, laboratori svuotati, scienziati licenziati. Fin dai primi mesi del suo mandato, l’amministrazione Trump ha adottato una serie di misure che stanno minando il normale sviluppo della ricerca scientifica. In particolare, ha ridotto i finanziamenti federali a diverse università: dai 400 milioni di dollari ritirati alla Columbia agli 800 milioni alla Johns Hopkins che si è trovata costretta a licenziare 2mila persone.

In alcuni casi, i timori hanno avuto già i primi effetti. I tagli imposti dall’amministrazione Trump ai National Institutes of Health (Nih), l’agenzia governativa più importante per la ricerca biomedica americana, hanno bloccato progetti e terapie innovative – come quella contro i tumori del tratto gastrointestinale – che rischiano ora di essere lasciati a metà strada. Nei giorni scorsi, inoltre, 1.900 scienziati americani – membri delle Accademie Nazionali di scienze, ingegneria e medicina – hanno firmato una lettera aperta in cui avvertono che “si sta decimando l’impresa scientifica della nazione riducendo i finanziamenti e licenziando migliaia di scienziati”. Questi tagli, combinati con altre misure che rendono l’America meno accogliente per gli stranieri, potrebbero avere un impatto particolarmente negativo sui ricercatori non americani, innescando quella che alcuni definiscono un’inversione di tendenza: da nazione attrattiva per i talenti a meta di fuga per i cervelli. E l’Italia, che per anni ha sofferto la fuga dei propri ricercatori, ora tenta il colpo grosso: trasformare la potenziale emorragia di talenti in un’occasione storica per rafforzare il sistema scientifico del nostro Paese. Secondo i dati dell’ambasciata italiana a Washington, sono oltre 15mila i ricercatori italiani negli Stati Uniti.

Il piano dell’Italia

Il programma lanciato dal ministero dell’Università e della Ricerca si articola in più fasi e prevede un finanziamento continuo, con un primo stanziamento di 50 milioni di euro già in partenza. Il primo passo è un avviso pubblico in uscita nei prossimi giorni giorni, rivolto a giovani ricercatori vincitori dei bandi ERC Starting Grants o ERC Consolidator Grants, attualmente all’estero. Questi finanziamenti europei destinati a progetti di ricerca di frontiera rappresentano un’eccellenza della scienza internazionale. Ma, spesso, i vincitori italiani di questi grant decidono di portare i loro progetti all’estero. Il piano italiano punta a invertire la rotta: fare dell’Italia non solo una destinazione possibile, ma una scelta desiderabile.

finanziamenti Erc – ovvero European Starting Grants e Consolidator Grants – sono tra i bandi europei destinati a sostenere la ricerca di frontiera. Gli Starting Grants si rivolgono a giovani ricercatori promettenti, di qualsiasi nazionalità, che abbiano completato il dottorato da 2 a 7 anni, mentre i Consolidator Grants sono pensati per scienziati più affermati, con 7-12 anni di esperienza post-PhD. Sebbene siano promossi dall’Unione europea, non è necessario essere cittadini europei per partecipare: ciò che conta è che l’attività di ricerca si svolga in uno degli Stati membri dell’Ue o nei Paesi associati. Questo significa che anche ricercatori attualmente residenti o attivi negli Stati Uniti possono presentare progetti, purché accettino di trasferire il loro lavoro in Europa. È qui che si inserisce l’opportunità per l’Italia: attrarre questi talenti offrendo loro infrastrutture, incentivi e un ambiente di ricerca competitivo dove poter realizzare i loro progetti.

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