Il libro “Excellent Sheep” scritto da William Deresiewicz, edito da Free Press, ha suscitato una serie di polemiche negli Stati Uniti. Al centro dell’attenzione sono finiti gli studenti di Harvard, Yale, Stanford, e delle migliori Università al mondo. L’accusa, secondo Deresiewicz, è quella di essere un branco di “pecoroni senza creatività”. L’articolo di Maria Laura Rodotà
«Rory è stata ammessa a Yale». «Fantastico! Richard, dobbiamo chiamare subito gli X e dirglielo, che il loro nipote non è riuscito a entrare neanche a Brown». Il breve, memorabile scambio figlia-nipote-nonni in una puntata della serie Una mamma per amica mostra tutto in due battute: l’alto valore onorifico dell’ammissione a un’università di prestigio, e la ferocia di alcune famiglie nel desiderarlo e celebrarlo. Negli Stati Uniti, nel Regno Unito, oramai ovunque (gli studenti stranieri nelle università anglosassoni contribuiscono ormai in modo sostanzioso al Pil; i genitori che fanno studiare i figli in inglese sognano di mandarli a quelle famose, anche se spesso i poveretti finiscono in colleges-fetecchia).
Harvard, Yale, Stanford, Princeton, Columbia, non sono considerate solo una garanzia per il futuro del figlio/nipote ammesso. Sono una conferma sociale del più alto livello (più di una barca-ferro da stiro, più di un attico, più di dieci Suv), un’apoteosi per la dinastia. O cose del genere.
Chi non ha avuto simili conferme, cioè quasi tutti, al netto della bravura dei figli (molti non hanno 50 mila euro l’anno da investire in retta e alloggio, anche, addirittura), chi non ci fa caso ma certo-se-fosse-successo-non-gli-sarebbe-dispiaciuto, potrà trovare sollievo nel libro appena uscito di un ex professore proprio di Yale che definisce quest’élite studentesca globale degli “eccellenti pecoroni”.
Si chiama così, «Excellent Sheep», autore William Deresiewicz, edito da Free Press e scaricabile via Amazon per 13 euro e 99. Deresiewicz ha lasciato Yale senza aver vinto una cattedra. Per questo i colleghi rimasti in università della Ivy League gli hanno subito dato, come si dice a palazzo Chigi, del rosicone. Ma le sue analisi, i suoi racconti, sembrano assai verosimili; sono poi adattabili, nel loro piccolo, ad altri atenei e scuole d’eccellenza in giro per il mondo.
I più bravi, quelli che entrano e che vanno bene, sono secondo lui un gregge conformista, per opportunismo e forse anche per indole originaria. Quindi poco critici, pochissimo creativi, scarsamente capaci di discutere, dissentire, elaborare idee. I più bravi a passare esami, insomma.
Quelli che poi, in massa, si dedicano a un numero limitato di professioni, quasi tutte nella finanza e dintorni; diventando un’overclass, una super-élite isolata, poco empatica e neanche tanto intelligente. Gli studenti della Ivy League (la lega degli atenei storici più prestigiosi) sono, in maggioranza, secondo lui, non troppo capaci di “curiosità, ribellione, coraggio morale, stravaganza appassionata”. Quelli che lui chiama HYPSters (studenti e laureati di Harvard-Yale-Princeton-Stanford) sono una generazione di giovani donne e uomini «beneducati, studiosi, tossicodipendenti da riconoscimenti, arraffatori di voti alti», un eccellente gregge, si diceva. Senza voglia né talento per cambiare il mondo, casomai il loro reddito.
Selezionati con cura maniacale -il recensore del New York Times, con figli al liceo, racconta come quel capitolo gli abbia procurato attacchi d’ansia che ancora durano- da commissioni senza pietà e, palesemente, senza senso dell’umorismo. Tanto, che per passare quelle selezioni, molti studenti fin da ragazzini si trasformano in macchine da ammissione. Tanto che, sempre secondo il New York Times, Excellent Sheep diventa «un atto d’accusa contro la vita e il modo di pensare dei ceti alti» in America e forse altrove.
E un appello a ritrovare, nell’Accademia e fuori, quella stravaganza appassionata grazie alla quale l’America e altri Paesi hanno dato il meglio (l’allenatore Nereo Rocco la chiamava “la vena del mona”, ma lui non era un laureato della Ivy League, è noto).