Ricerca, prove tecniche di valutazione

Dopo la pubblicazione del primo bando dell’Agenzia nazionale di valutazione della ricerca, piovono critiche sulle misure scelte per l’assegnazione dei fondi alle università. Secondo i ricercatori i parametri bibliometrici utilizzati renderanno troppo meccanico il processo premiale e non fermeranno le baronie

Uno dei paradossi italiani si colloca nel settore della ricerca. Le risorse in questo campo non solo sono poche, ma anche distribuite male. Nella produzione mondiale di lavori scientifici di qualità i nostri studiosi si collocano ai primi posti, – dodicesimi secondo la Thomson’s Scientific Essential Science Indicator, settimi secondo uno studio della Royal Societyinglese – mentre si aggiudicano le ultime posizioni quando si parla di “investimenti”. Per cercare di regolamentare il settore e andare oltre una distribuzione dei fondi a pioggia, il Ministero della ricerca sta elaborando dei criteri su cui basare la valutazione. E il primo passo concreto è stata l’istituzione l’Anvur.

All’Agenzia nazionale per la valutazione dell’università e della ricerca, la legge 240 – meglio nota come legge Gelmini, che ha riformato l’università – ha affidato l’organizzazione del settore ricerca: dai criteri per reclutare personale fino agli accreditamenti per i dottorati. La finalità è quella di individuare i ricercatori e le migliori università sulle quali valga la pena investire, assegnando “premi” economici.

Dal 7 novembre 2011 l’agenzia ha iniziato ad essere attiva attraverso la pubblicazione del primo bando. La valutazione della qualità della ricerca attualmente prevede la classificazione di oltre 200mila elaborati scelti tra quelli pubblicati dai ricercatori delle università e dal personale degli enti di ricerca. Ma era questo che si chiedeva al Ministero quando si parlava di premiare la ricerca ed eliminare le baronie? Questa valutazione, in realtà, è vista come una vera montagna da scalare. E il pericolo è quello di essere sommersi da una valanga di numeri. Le strade su cui l’Anvur si sta muovendo hanno il sapore di qualcosa di molto tecnico. Queste sono principalmente due: i parametri quantitativi e l’internazionalizzazione.

Può la qualità essere misurata con la quantità? Tra gli indicatori che l’Anvur sta definendo, ci sono la peer review (commissione di pari) e l’analisi bibliometrica. Francesco Sylos Labini – ricercatore presso il Centro Enrico Fermi di Roma e presso l’Istituto dei Sistemi Complessi del CNR e redattore del Roars, il sito nato da poco con focus sui problemi dell’università e della ricerca – rimanda il problema a una questione di responsabilità. “Abbiamo bisogno di persone che si assumano la responsabilità delle proprie scelte e che, coadiuvati da dati oggettivi, possano decidere chi è meritevole di ricevere i fondi. Alcuni parametri servono solo per avere una idea grossolana del lavoro svolto”. Per molti studiosi, i soli strumenti asettici non dicono nulla del profilo di un ricercatore e potrebbero portare ad una produzione finalizzata al raggiungimento di tali parametri. Il rischio maggiore sarebbe quello di produrre ricerche, privilegiando i temi in voga per ottenere un maggior numero di citazioni, e gli argomenti davvero innovativi potrebbero essere tralasciati per paura di una tiepida accoglienza.

E’quindi inutile la creazione di una agenzia che possa riportare un po’ di ordine nei diversi settori della ricerca? Per il ricercatore del Roars bisogna sempre partire dall’oggetto della nostra analisi. Se si valuta, ad esempio, l’impatto del nostro paese nel settore della ricerca, il mero parametro delle pubblicazioni può funzionare: più uno considera un insieme di ricercatori, più questi parametri bibliometrici acquisiscono senso. Viceversa la stessa misura andrebbe a perdere di senso se applicata su un singolo individuo. Inoltre Labini sottolinea l’esigenza di attuare una netta distinzione tra il campo scientifico e quello umanistico. “Ci sono dei campi della ricerca che si prestano maggiormente ad essere riconosciuti dalla comunità, perché i problemi su cui si lavora sono esattamente gli stessi. Nelle scienze naturali si cerca di capire delle proprietà delle natura e si lavora in gruppo a livello internazionale”. Nel campo letterario, invece, i risultati sarebbero più difficili da quantificare. Secondo gli umanisti le dimostrazioni in questo settore aspirano a verità solamente probabili, rendendo difficile la soluzione di un problema, nella piena consapevolezza che altre sono possibili.

Tra le indicazioni fornite dall’agenzia, c’è anche l’invito a produrre i testi nella lingua della comunicazione scientifica internazionale: l’inglese. Per il presidente dell’Anvur, Stefano Fantoni, “la ricerca in ogni campo deve avere un respiro internazionale. E’ importante, quindi, che sia comunicata e che possa lasciare un segno, anche solo per trasmettere la metodologia utilizzata”. In molti ambienti umanistici, però, la lingua nazionale rappresenta un mezzo espressivo potentissimo. E la scelta di potersi esprimere in due o più lingue potrebbe consentire alle ricerche di circolare nella lingua più efficace, a seconda della destinazione.

Anna Di Russo
adirusso@corriereuniv.it

 

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