“Il tema ambientale è quello che oggi coinvolge di più i ragazzi, insieme a quello della parità di genere. Un negazionista sotto i vent’anni non l’ho ancora incontrato, nella fascia tra i cinquanta e i settanta sì”. Lo afferma lo scrittore e insegnante Enrico Galiano in un’intervista a Marco Pontoni per Il Dolomiti, sottolineando come siano proprio i giovani a cercare di “svegliare” gli adulti e a pretendere un ruolo attivo nelle grandi questioni sociali.
Secondo Galiano, la scuola dovrebbe avere il coraggio di accordare fiducia agli studenti, non limitarli a semplici fruitori di decisioni prese da altri. “Oggi la loro voce si sente nelle proteste, che è già una forma di attivismo. Ma devono essere coinvolti maggiormente anche nella ricerca delle soluzioni”.
Parlando delle chiusure scolastiche estive, lo scrittore non risparmia critiche al sistema italiano: “I tre mesi di vacanza nascevano in un’Italia contadina, quando servivano per aiutare i genitori nei campi. Oggi i bisogni sono altri, ma in Italia il patriarcato è così forte che restiamo fermi su modelli ottocenteschi. Se intervistassero più spesso le mamme lavoratrici, direbbero chiaramente che hanno bisogno di supporto per conciliare famiglia e lavoro”.
Sul fronte delle nuove tecnologie, Galiano apprezza i tentativi di regolamentazione, ma invita a non fermarsi ai divieti: “Le cinque ore di scuola sono forse le uniche della giornata in cui i ragazzi possono stare senza telefono, ma il divieto non basta. Bisogna parlarne insieme, conoscere i rischi e le potenzialità. E soprattutto bisogna affrontare il tema anche fuori dalla scuola, perché il cellulare crea dipendenza e la questione è sanitaria, non solo educativa”.
Autore di romanzi di successo come Eppure cadiamo felici, Più forte di ogni addio e del recente Quel posto che chiami casa, Galiano racconta che i suoi lettori sono soprattutto insegnanti e genitori in cerca di strumenti per comprendere il mondo degli adolescenti. Ma anche molti ragazzi scelgono i suoi libri per riconoscersi e trovare risposte: “Capiscono che chi scrive non li giudica, ma prova a fare un passo verso di loro”.
Infine, sul suo rapporto con la scrittura, lo scrittore la definisce una forma di resistenza al dolore: “Per me è sempre stato un modo per affrontarlo. Nel mio ultimo romanzo c’è una perdita che è anche la mia. Scrivere è come addomesticare il lupo che abbiamo dentro. Lo dico sempre anche ai miei studenti: scrivete. Io chiedo loro un testo a settimana e vedo che, alla fine, lo apprezzano”.
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